YES, WE KEIR

Starmer ha riportato il Labour a prendere voti. Crescita, sicurezza, ritorno al centro. Una lunga marcia.
Ai tempi di Tony Blair si chiamava il New Labour, il partito che sembrava condannato a decenni di opposizione e che, invece, divenne una storia di successo lunga una quindicina di anni.
In quel new il lavoro di una generazione che sognava un partito meglio sincronizzato con le trasformazioni sociali, politiche e comunicative degli anni ’90, meno polveroso, prevedibile, immobile. Soprattutto, vincente.
O, comunque, nelle condizioni di poter vincere, di potere ambire di nuovo a conquistare Downing street, dopo l’interminabile stagione del thatcherismo. E così è stato.

Da New a Changed

Non potendolo chiamare new, perché intanto sono passati altri quindici anni circa di disperante opposizione ai conservatori al governo, il nuovo leader del Labour, Keir Starmer, si è trovato di fronte alla stessa necessità di allora: come fare a ribattezzare il partito in maniera tale che si capisca che non è più soltanto il solito, vecchio Labour, ma un’offerta politica rinnovata, con una sua ritrovata freschezza, competitiva? Vincente, appunto.
Certo che dietro questo sforzo ci sono stati anni e anni di frustrazione, di false partenze, di strade senza uscita, di sconfitte e anche di rabbia. Ma anche di preparazione, di lavoro in prospettiva, talvolta clandestino, di apprendimento dagli errori – gravi – che venivano commessi.
Così come seppe fare il Labour negli anni ‘90, lo spiegò bene Philip Gould, il compianto sondaggista di Blair, in un libro sulla “rivoluzione infinita” che portò un partito ripiegato a reinventarsi, a partire anche dai particolari apparentemente trascurabili, come il simbolo, la rosa stilizzata che ancora oggi è il brand laburista.
Indubitabilmente, la fase politica ed economica su scala globale è mutata di segno: il New Labour, in scia con la presidenza di Bill Clinton negli Stati Uniti, segnava un’epoca di ottimistica attesa e fiducia nelle magnifiche sorti e progressiste di un mondo interconnesso, di una crescita impetuosa, di nuovi mercati che si aprivano, di una Rete che sembrava un nuovo allunaggio.
Oggi, dopo la crisi pandemica – centrale nella implosione del governo di Boris Johnson – e l’aggressione russa dell’Ucraina, uno scenario planetario da incubo, il ritorno dello spettro nucleare, la prospettiva di un’economia di guerra in Europa, i social più come minaccia che opportunità, la proposta politica del Labour non poteva non tenere conto di condizioni di partenza completamente diverse e di un orizzonte radicalmente trasformato.
Non è un caso che il richiamo alla sicurezza – quella economica, ma anche quella geopolitica o delle strade infestate dalla micro-criminalità – sia tornata ad essere una bandiera elettorale, come fu già nella stagione blairiana che prometteva di essere “dura con il crimine e dura con le cause del crimine”.
Così oggi Starmer saluta, piuttosto, un più pragmatico Changed Labour, il suo mantra per sottolineare un messaggio sfaccettato: che il partito non è più quello di Jeremy Corbyn, identitario e ritirato nella sua zona di conforto; che il cambiamento portato nel suo partito è la prova che cambiare si può e che, siccome lui lo ha fatto, lo farà anche al governo del Paese; che cambiare, dopo quattordici anni di tories a Downing street, è la parola chiave e lo slogan della sua campagna elettorale, non solo un rebranding; che il riallineamento al centro, operato da Starmer, parla a tutto il paese, anche all’elettorato conservatore deluso dai bruschi saliscendi di questi anni; e che non sarà il solito Labour, quello tassa e spendi, dove l’ideologia prevale sul senso comune.

 Prima il Paese, poi il partito

In uno spot realizzato assieme a Gary Neville, l’ex calciatore e conduttore televisivo, il leader laburista lo dice chiaro, in mezzo ai boschi del Lake District, come a riprendere contatto con i fondamentali: “Avevamo perso la nostra strada come partito. Eravamo andati troppo fuori sintonia con la gente che lavora e con quello che a loro preme veramente. Abbiamo dovuto cambiare tutto questo, rimettere in piedi il partito e metterlo in condizione di vincere le elezioni”. E però: “Prima il Paese, poi il partito. Stai prendendo questa decisione perché riguarda il Paese o perché pensi che riguardi il partito? Perché se è quest’ultima, beh, non sono interessato”.
Country first, party second è il tormentone del Changed Labour, di questo partito trasformato che non mette più il partito per primo, le sue dinamiche, le sue faide, il suo credo politico, la sua nicchia da mobilitare. Ma un elettorato più ampio, rimettendosi al centro della piazza. Parlando al Paese, a tutti, e non solo ai suoi.
Starmer non è certo un leader che affascina e scalda il cuore, più Biden che Obama, ha un’aria da vicino della porta accanto, non ha il sorriso smagliante e i “demon eyes” di Blair, è una persona dignitosa e leale che è rimasta nel suo partito anche quando il Labour si ubriacava di Corbyn e di Momentum, il braccio operativo della sinistra più sinistra. E non ci stava, puntando i piedi o tramando nell’ombra, ma facendo diligente il suo lavoro (ministro ombra per la Brexit, lui che era stato un tenace avversario del Leave e interloquiva sospiroso con i colleghi progressisti europei), giocando in squadra anche con chi non la pensava come lui, un affidabile mediano. Ma facendosi trovare preparato all’appuntamento della leadership, una volta naufragato il battello ebbro del corbyinismo.
Arrivato alla testa dei laburisti, nel 2020, ha preso l’andatura del maratoneta e nella sua lunga marcia ha ripristinato, con determinazione e chiarezza di visione, le condizioni minime per cui il partito non fosse più percepito come un’assai poco gioiosa macchina da guerra, e tornasse, invece, a proporre una offerta politica ed elettorale credibile, solida, in sintonia con una middle Britain, da troppo tempo negletta nelle strategie di un Labour percepito dagli elettori come autoreferenziale e remoto.
Somiglianze e differenze con il profilo e con il percorso di Blair possono spiegare qualcosa del “rinnovamento”, promesso e attuato da Starmer, ma non tutto. Il suo pragmatismo non è cool, ma neanche spregiudicato; il suo impianto ideologico meno appuntito, ma più largo (tanto da contenere i cavalli di battaglia di una sinistra che oggi chiede, certo, il cambiamento, ma anche qualche rassicurazione in più rispetto agli anni ruggenti della Terza Via); le origini umili vengono sottolineate per enfatizzare il carattere di un rassicurante papà straniero rispetto al duello tutto politico e interno al Labour tra Blair e Brown per la leadership, saga che condizionò pesantemente quei tredici anni al Number Ten. In entrambi i casi, tuttavia, la ricostruzione ha comportato una lunga traversata nel deserto, con una dinamica sovrapponibile, un ritmo riconoscibile, una sequenza implacabile: il tonfo (all’epoca la lunga parabola di Margaret Thatcher a Downing street), il riflesso identitario, la zona di conforto, di nuovo la catastrofe (basti pensare alla pesantissima sconfitta subita da parte di Boris Johnson, pare un secolo), la lenta risalita, una leadership credibile, infine una rinnovata aria di vittoria. I partiti – non sempre, non tutti – imparano. Il Labour lo ha saputo fare.

Tornare a crescere

    Credibilità, la parola chiave. Ancora una volta legata a quanto fatto con il partito. “Capisco quanto sia davvero importante portare i cittadini a dire ‘ci fidiamo di voi sull’economia, ci fidiamo di voi sulla difesa, ci fidiamo di voi sulle frontiere’”, spiega Starmer a Neville. E basta dare una occhiata al manifesto elettorale per cogliere questo sforzo di ricentrare il partito: crescita, creazione di ricchezza, stabilità, sicurezza nei quartieri, tutte parole che erano uscite dal radar dei progressisti perché, a torto, ritenute di destra, come se sentirsi non minacciati tornando a casa la sera o pensare di poter guadagnare qualcosa di più per la propria famiglia possa avere un qualche colore politico.
Non si è trattato, dunque, per Starmer tanto – o soltanto – di recuperare il blairismo o alcuni dei protagonisti di una stagione che vide il Labour a Downing Street per ben tre mandati, quanto, appunto, di parlare di nuovo al Paese, con un messaggio largo, un programma broadcast, non limitandosi più soltanto alla attivazione delle bolle, alla mobilitazione della base, al tepore dello stare tra e con i tuoi.
Il leader laburista ha cambiato in profondità il partito, prendendolo contropelo e riportandolo a un’electability che sembrava una chimera inafferrabile: come ha fatto, ad esempio, sull’antisemitismo che aveva aperto una ferita dolorosa sotto la guida di Corbyn, provocando polemiche e processi mediatici, epurazioni e imbarazzi. Tanti militanti non si sentivano più a casa loro, parlamentari e dirigenti avevano lasciato il Labour perché si vivevano come stranieri ed estranei rispetto a quell’idea e pratica di comunità troppo stretta. Una battaglia niente affatto simbolica, e vinta da Starmer, segno del ritorno a una concezione non escludente, non faziosa, rispettosa di tutti i contributi, le storie, le culture, le sensibilità.

 Vincere non è una parolaccia

Ecco perché un partito di nuovo accogliente al suo interno è capace di parlare a tutti, non soltanto alla sua gente, alla propria base. “Riunire il Paese”, insiste il leader laburista nei duelli televisivi, citando Jo Cox, la parlamentare uccisa nel 2016 da un estremista di destra, il cui discorso di esordio ai Commons sottolineava l’importanza di ciò che unisce rispetto a ciò che divide.
Perché senza intaccare i muraglioni degli avversari o riedificare i propri – la sua collaboratrice più stretta, Deborah Mattinson, è la sondaggista e analista che meglio ha studiato il cedimento del Red Wall, i collegi delle Midlands e del Nord, tradizionalmente rossi, e spianati di blu nel 2019 da Johnson – che hanno segnato i contrafforti del Labour per quindici anni al potere e quelli costruiti dai tories a protezione delle loro politiche ciniche e contraddittorie (Starmer lo chiama il “caos” conservatore, la fatuità di Cameron, i capricci di Johnson sotto il Covid, il grottesco fiasco di Liz Truss, l’inamidata inutilità di Sunak) non è dato di vincere, altra parola che la sinistra ha spesso in dispetto, come fosse un’arroganza.
Vincere significa poi alla fine avere la possibilità di portare il cambiamento che si è sognato e costruito insieme. E il potere per un progressista – o forse per la politica – dovrebbe essere un verbo servile, come dovere e lo stesso volere. Essere di servizio – il “duty”, spesso richiamato da Starmer – essere utili.
Il papà del leader laburista era un artigiano, fabbricava utensili. Il partito che in questi quattro anni ha costruito Keir somiglia a uno degli strumenti torniti da suo padre, non solo per i suoi militanti o elettori, ma per i cittadini, tutti i cittadini. Per questo nel suo programma è tornata la crescita e il pugno duro sul vandalismo assieme al pubblico nel settore energetico e all’attenzione alla salute mentale. Oltre alle file d’attesa, il servizio sanitario nazionale, le case, le infrastrutture; l’hardware, insomma, della sinistra.
Il Labour “cambiato”, non più isolato e chiuso nell’orgoglio della propria appartenenza di una sinistra che non parlava più alle menti e ai cuori di tutto il Paese, è la scommessa di cambiamento di Keir Starmer: ho trasformato un partito che sembrava irredimibile e narciso, ora sono, anzi siamo in grado di cambiare la Gran Bretagna. Putting people first, come predicava negli anni ’90 Bill Clinton. Non sarà la quarta Via, ma è il cambiamento vincente e tranquillo che il Labour aspettava da tanti, troppi anni.

Stavolta è possibile. Yes, we Keir…