GUAI AI VINTI
Parlando di merito e di bisogno, o meglio del rapporto tra il merito e i bisogni, a sinistra si discute e ci si divide da sempre. Il tema sembra quello classico da addetti ai lavori, invece ha risvolti pratici che determinano le agende politiche e i programmi dei partiti di sinistra per come li abbiamo conosciuti nel ‘900 e in questo inizio di XXI secolo. Da sempre si discute di merito e di meritocrazia, da sempre si discute di bisogni, di fragilità e di povertà, in tutta la complessità nella quale si manifesta il fenomeno. Oggi siamo nell’era del digitale, che cambia il modo di vivere delle persone, di stare assieme, di pensare e di dare valore alle cose che si fanno. Cambia e si trasforma la società e l’economia, quindi bisogna attrezzarsi anche noi, capire come si sta cambiando e provare a dare senso e direzione. Sapendo che nelle grandi trasformazioni il ruolo dello Stato è decisivo e cruciale. Lo Stato esattamente come la storia non è morto. Bisogna capire che Stato si vuole, se deve controllare o se deve proteggere, o più pragmaticamente deve fare entrambe le cose, e bisogna decidere come deve farlo, con quali strumenti e con quali finalità. Su questo potrebbe definirsi una nuova polarità tra destra e sinistra. Su questo, io credo, si
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dovrebbe definire un programma ed una prospettiva, possibilmente vasta e capace di tenere assieme i diversi pezzi che compongono la nostra società.
Nelle conversazioni che seguono si è discusso di sicurezza in senso lato, di globale e di locale, di strumenti e possibilità, mettendo assieme le sensibilità di un’esperta di politica estera e la capacità di stare sul pezzo di chi fa politica sul territorio.
La transizione non è un pranzo gala e soprattutto ha costi sociali altissimi. La “quarta via”, dopo la terza, parte dall’idea che le persone sono il fine e non il mezzo dell’ innovazione tecnologica e digitale, che resta uno strumento nelle mani delle persone.
Come ogni trasformazione anche quella che stiamo vivendo genera vincitori e vinti. Occorre occuparsi dei vinti e di quelli che rimangono ai margini del mondo nuovo che è già arrivato. Il merito è una conquista della democrazia, la meritocrazia una degenerazione che deprime la partecipazione. Al senso di insicurezza si deve rispondere garantendo i diritti e moltiplicando le opportunità. Oggi serve proteggere. Probabilmente l’attualità del New Labour sta soprattutto qui.
QUELLO CHE SIAMO OGGI
La democrazia non è scontata, e il mondo non va per forza nella direzione del progresso. L’invasione dell’Ucraina ci restituisce l’urgenza di recuperare il senso di quello che siamo. Si può fare, non è facile naturalmente. Una conversazione tra Diego Castagno e Lia Quartapelle su cosa dobbiamo difendere. E come…
Prima la pandemia, o forse meglio la sindemia, poi l’inflazione, quindi la guerra in Ucraina e la crisi in medio oriente. Forse sarebbe meglio parlare di sindemia, o di un mondo che cambia in una fase di transizione epocale. Per noi Europei la crisi nell’Europa dell’est ha avuto un impatto politico e sociale di straordinaria portata.
Il 24 febbraio del 2022 il mondo per come lo conoscevamo, e gli equilibri globali per come li conoscevamo, sono venuti meno. Durante l’invasione russa dell’Ucraina diventa evidente a tutto il mondo come i presupposti, le regole, ma anche la dottrina che avevano tenuto insieme il mondo da dopo la Seconda Guerra Mondiale non regge più.
In che senso non regge più?
Da un lato non regge più il principio della sovranità territoriale, il principio per cui non si aggrediscono i vicini. Un principio che è riconosciuto dalla stragrande maggioranza delle Nazioni a livello internazionale, ma che alcune grandi Nazioni sembrano disponibili a mettere in discussione nel momento in cui questo risponde a una propria “visione del mondo”. Un mondo in cui il principio della sovranità territoriale non regge più è un mondo in cui vale la legge della giungla, cioè la legge del più forte: chi ha più armi, chi ha più determinazione, chi ha più spirito guerresco vince. E chi, invece, è per la cooperazione rischia di soccombere. Il secondo presupposto che crolla il 24 febbraio 2022 è l’idea che alla fine i legami economici tra le Nazioni sono quelli che garantiscono di più la pace. Questa era la credenza con cui noi, in Occidente, abbiamo approcciato per anni la Russia, facendo anche degli accordi commerciali che ritenevamo vantaggiosi per noi e per loro.
Per noi un accordo economico vantaggioso era una sorta di assicurazione per la pace. La guerra Ucraina, tra le altre cose, porta anche a riconsiderare il concetto stesso di sicurezza nazionale, per certi versi potrebbe segnare una corsa al riarmo che in qualche modo è già nell’agenda dei paesi della NATO o della UE…
Con l’invasione dell’Ucraina abbiamo capito che per Putin la dimensione economica era meno importante di quella politica. L’invasione dell’Ucraina non conveniva in nessun modo dal punto di vista economico e della tenuta dello sviluppo russo. La Russia è stata isolata. Certo, potrebbe essere “isolata” meglio visto che le sanzioni non sempre funzionano. E ha sostanzialmente troncato quelle relazioni economiche create negli ultimi anni proprio per evitare la guerra con il colosso nucleare russo.
La cosa più preoccupante che è emersa è il tema della deterrenza nucleare. Va ricordato che l’Ucraina tra le altre cose sta pagando un caro prezzo per avere fatto un gesto che, subito dopo la fine della guerra fredda, veniva ritenuto un gesto serio, responsabile, e cioè quello di cedere le proprie testate nucleari. Si sta facendo strada l’idea che solo le potenze nucleari riescono a difendersi, appunto, dall’aggressione dei propri vicini. Questo produrrà un mondo in cui vi sarà una corsa al riarmo nucleare anche dei Paesi cosiddetti potenzialmente imprevedibili. E quindi di quei Paesi spesso più riottosi a trovare delle situazioni negoziate a livello globale.
Un risveglio brusco, tra l’latro subito dopo l’emergenza covid e i vari lockdown.
Il risultato di questo risveglio è che le regole su cui si basava una certa idea di Occidente erano venute meno. O comunque sono entrate in crisi. L’idea che ci fosse una storia segnata, o la fine della storia, e che tutti i Paesi, più o meno, andassero nella stessa direzione, con alcuni Paesi che sarebbero arrivati prima a essere dei Paesi democratici, altri dopo, perché si riteneva conveniente per tutti essere “democratici”, collaborare con gli altri, rispettare i confini, fare delle alleanze…
Tutto questo quadro di norme e di principi si è completamente sciolto come neve al sole, sotto al rumore dei primi allarmi aerei a Kiev e delle prime bombe che esplodevano a Mariupol.
Anche il fatto che la storia fosse finita e che non ci fossero alternative ad una certa idea di crescita tutta occidentale è un tema che la crisi sanitaria, poi sociale e poi militare ha rimesso al centro del dibattito…
Il risveglio per l’Occidente è particolarmente drammatico perché le nostre società da tempo si sono dimostrate molto autocritiche sulla propria identità, ma hanno smesso di ragionare su quello che sono, cioè su quello che “noi” siamo. La critica e l’autocritica fanno parte del “sistema” democratico, ma in questo momento viviamo una fase di grande debolezza del nostro senso, della nostra identità. Ed in questo processo in crisi ci va soprattutto la sinistra. Mentre la destra può rispondere alla crisi del 24 febbraio del 2022 con una politica muscolare da un lato, xenofoba e preoccupata dei vicini dall’altro, la sinistra vede crollare il postulato della propria iniziativa politica degli ultimi 200 anni, cioè la solidarietà internazionale, l’idea appunto che la cooperazione sia meglio dell’aggressione e vede venir meno le ragioni di un positivismo profondamente insito nelle dinamiche dei progressisti che diventa sempre più irrazionale.
Se va in crisi un pensiero legato al progresso allora servirebbero paradigmi e metriche nuove. Penso ad esempio al concetto di innovazione e al senso che ha l’innovazione.
Per i progressisti è un brutto colpo scoprire che non è vero che il mondo va in una direzione di progresso, ma che ci possono essere dei momenti molto profondi di regresso come quello che stiamo vivendo.
Siamo al che fare direi. Che fare dunque?
Innanzitutto serve, è urgente, ritrovare il senso di quello che noi siamo. Nelle nostre società non c’è fino in fondo la consapevolezza che quella democratica è una scelta che costa impegno, fatica e fiducia. Soprattutto i ragazzi più giovani la sottovalutano, non ricordano, o meglio non conoscono, se non indirettamente, il percorso e la fatica che è stata fatta per arrivare a questo punto. Non è detto infatti che saremo sempre liberi, non è detto che vivremo sempre in un sistema democratico in cui le minoranze sono protette e la maggioranza decide; non è detto che vivremo in società aperte. Lo si deve volere e, dunque, si deve proteggere questo sistema.
Le forze progressiste devono assolutamente lavorare sulla necessità di ritrovare il senso di essere una democrazia e assicurare la protezione dello spazio democratico.
C’è poi un nesso sempre più stretto tra democrazia e welfare per ciò si deve puntare con decisione sul tema della sicurezza e della protezione sociale.
Oltre a questo tipo di riflessione e a questo tipo di azioni, che pure non sono scontate e sono complicate da portare avanti, dobbiamo ritrovare ciò che di positivo ha portato la democrazia. Qui sta tutto il dibattito sul welfare, sulla crescita, sul fatto che le condizioni delle persone che vivono in democrazia sono sicuramente condizioni migliori rispetto a quelle di chi vive nelle autocrazie. Ecco perché questo discorso è importante e perché la democrazia va difesa.
Per trent’anni abbiamo pensato che lo Stato fosse il participio passato del verbo essere, o la bestia da affamare. Per “salvare” la democrazia io credo che forse dovremmo pensare prima ad un nuovo ruolo dello Stato e a che tipo di Stato vogliamo.
Dobbiamo pensare in questo senso anche, (soprattutto?) alla parte più complicata, ossia al tema della difesa. Il sistema così come lo conosciamo oggi non va avanti da solo, e non è un sistema che sa proteggersi. Una parte delle entrate pubbliche devono essere destinate alla difesa e si deve tornare a parlare di questi argomenti con i cittadini. Questi a loro volta devono essere consapevoli che i governi stanno facendo delle scelte che prima potevano permettersi il lusso di non dover fare. Oggi non è più così e non sarà più così per tanti anni a venire. Questo è un altro elemento di discussione politica su cui va allenata la consapevolezza e stimolato il dibattito democratico.
CAMBIARE PAGINA
I labour inglesi hanno seriamente intenzione di cambiare pagina. Pensano ad un socialismo pragmatico e “competitivo”, ma propongono un programma che è molto lontano dalla “terza via” di Antony Giddens e Tony Blair che ha influenzato la politica a sinistra per 25 anni. Un intervista di Diego Castagno a Pietro Bussolati.
Si chiama Changed labour, quindi cambia passo rispetto al passato. In che senso con questo manifesto si cambia? E cosa si cambia?
Ci sono molte tesi che segnano una discontinuità. Possiamo partire ad esempio dal tema dell’energia, che ci consente di capire alcuni mutamenti del sistema di straordinario importanza. Siamo passati da un mondo in cui veniva teorizzato che, tendenzialmente, gli investimenti potevano venire solo dal privato. Anzi, la presenza del pubblico su determinati temi come l’energia poteva essere negativa perché spiazzava gli investimenti privati e quindi l’innovazione, creando delle scale di inefficienza. Gli unici che contestavano questo pensiero erano i movimenti anti-globalizzazione. La verità è che nel lungo termine quei movimenti hanno condizionato la politica dei vent’anni successivi più dei leader politici di allora, tanto che oggi sia la destra, prima in termini di chiusura, poi di protezione e controllo, sia la sinistra, anche se con un certo ritardo, si stanno riparametrando. Sul tema dell’investimento e dell’intervento dello stato il Labour dà un’indicazione su come lo Stato può indirizzare il mercato, plasmandolo per poi rigenerarlo. E l’energia è uno di queste aspetti. Io trovo molto interessante che il New Labour abbia immaginato di costruire una nuova grande partecipata pubblica nazionale che si occupa di fare investimenti, e che si sia accorto che non basta incentivare il mercato: il cavallo a volte non beve. C’è bisogno di un intervento pubblico, che ovviamente non può essere fatto con gli uffici statali dei ministeri, ma deve trovare necessariamente una flessibilità.
Un grande ritorno dello Stato, e della politica quindi. Magari ripensata nel senso di un rapporto con i cittadini e i loro bisogni, al plurale: come sono oggi i bisogni?
Lo Stato deve rinnovarsi accettando la sfida della responsabilità e dell’efficienza. È chiaro che il ruolo delle partecipate, soprattutto in settori strategici come l’energia, serve a far sì che lo Stato sieda al tavolo di chi conta, cioè quello della finanza e dell’economia, che governano una parte dei flussi economici. Serve il know-how necessario a consentirgli di non essere l’utile idiota che si fa portare a spasso da interessi particolari, ma piuttosto fare in modo che lo Stato entri nella sala principale, sedendosi a capotavola. Lo Stato, se sa rinnovarsi, trovare degli strumenti e acquisire il know-how può tornare il grande protagonista che indirizza l’economia di un Paese. Lo fa costruendo una cornice dentro la quale il mercato è tenuto a stare, liberando le sue energie e la sua forza creativa e senza intervenire con un’idea di pianificazione che arriva a dettagliare cosa deve fare il singolo attore economico.
Ci è chiaro che lo Stato non è morto, anzi. Diciamo che ora servirebbe capire che ruolo deve avere lo Stato nel XXI secolo.
Se il ruolo dello Stato è indirizzare, il ruolo delle partecipate è un ruolo cruciale. Io credo che anche in Italia, in cui ci sono alcune grandi partecipate pubbliche (che peraltro sono tra le poche grandi imprese che abbiamo) abbiano un ruolo fondamentale nel creare e direzionare l’indotto di piccole e medie imprese, che sono l’ossatura dell’economia e del tessuto imprenditoriale italiano, soprattutto nel Nord Italia e nella Lombardia.
Le grandi imprese possono essere uno stimolo ad alzare la qualità e gli standard, o ad aumentare la produttività. Certo devono essere guidate. In Italia abbiamo avuto invece quasi l’idea che le grandi partecipate pubbliche andassero lasciate libere e, anzi, che lo Stato dovesse avere meno ruolo e retrocedere nella partecipazione statale. In Inghilterra i Labour vanno nella direzione esattamente opposta. Il nuovo Leviatano, lo Stato, ha quindi la capacità di essere flessibile, ma autorevole con i singoli attori economici.
Che cos’è il new labour da questo punto di vista?
Il nuovo Labour passa per essere più riformista, quindi più moderato rispetto al Labour di Corbyn, ma al tempo stesso riprende le tesi dello stato investitore, tesi che in Italia consideriamo molto di sinistra e proposte da economisti di sinistra, come ad esempio Mariana Mazzucato. L’idea che lo Stato debba plasmare il mercato senza inchinarsi ad interessi particolari è, secondo me, l’aspetto cruciale. Nell’energia come nella digitalizzazione, le due grandi transizioni di oggi che sono anche le due vere sfide per la politica di oggi.
L’altro tema che mi sembra cruciale per la sinistra è abbandonare l’idea che il progresso sia positivo di per sé.
Forse se parliamo di progresso possiamo anche ragionare sul tema della direzione e del senso dell’innovazione, forse oggi la parola più usata, abusata e non compresa del lessico politico ed economico nell’Occidente.
Il progresso è positivo nel momento in cui risponde ai bisogni delle persone, di eguaglianza, di pari opportunità, di crescita individuale. Anche questo è un punto di congiunzione tra la sinistra corbynista e il New Labour. “Noi accettiamo il mercato e lo dobbiamo potenziare. Dobbiamo fare politiche dell’offerta a patto che nessuno possa controllare il mercato per interessi particolari”. Sull’IA e sull’influenza non solo economica delle grandi imprese digitali il tema che si pone il Labour, e che credo si debba porre la sinistra, è come il digitale impatti sulla piccola impresa. Dobbiamo scrivere le regole del nuovo mondo digitale sapendo questa tecnologia, come sempre è accaduto nella storia, non ha un impatto neutro.
Ritorniamo alla Gran Bretagna e facciamo un passo indietro fino al referendum della Brexit. Quanto è stata avventata secondo te la scelta di uscire dell’Europa per gli inglesi?
Sicuramente è stata avventata. Il Labour non può per motivi di consenso sostenere il rientro in Europa. Quello che stanno cercando di sostenere è un trattato di libero scambio che riguardi anche l’Europa, quindi in realtà di allargare il mercato unico europeo a una filiera atlantica. Non so se questo è fattibile del tutto, sicuramente la crisi pandemica e la crisi ucraina portano a un double-shoring, cioè le grandi imprese stanno raddoppiando gli stabilimenti produttivi quindi ponendoli sia nel mondo occidentale sia dove il costo del lavoro è più basso. Questo fa sì che si possano dare alcune risposte alla classe media e ai lavoratori che hanno visto erodersi il potere d’acquisto per effetto della globalizzazione, però devi regolarlo. Quindi la Brexit è stato un palese errore. Il percorso di re-inserimento del Regno Unito nell’Unione Europea è un percorso non breve. È chiaro che anche l’Europa deve fare un salto di qualità: ad oggi gli USA innovano, la Cina copia e l’Europa regola. Dunque si capisce che inglesi non amino entrare in un settore che pensa prima alla regolazione e poi all’innovazione.
Dobbiamo essere quelli che innovano. Dobbiamo potenziare l’innovazione e per questo, prima dicevo, ci deve essere trasparenza negli algoritmi, ma ci deve essere anche la capacità di produzione di quell’oro nero. Abbiamo la capacità di raffinare, l’abbiamo sempre avuta, in questo momento ci manca proprio l’estrazione del dato e la possibilità di utilizzarlo a fini di interesse pubblico.
C’è la crescita e c’è lo sviluppo. E ci sono due scuole di economisti, una di queste pensa allo sviluppo che ha una logica di prodotto e può essere declinato nella sua sostenibilità sociale oltre che ambientale. La mia sensazione è che serva un nuovo patto per lo sviluppo della società nel suo complesso, prima ancora di un contratto nuovo. Ricordo che in Italia lo stipendio non cresce da trent’anni, ma cresce il costo della vita…
In un articolo sulla biodiversità economica ho letto che le piante hanno un sistema fortemente simbiotico di protezione che a volte le porta a direzionare la loro crescita. A differenza degli animali e degli esseri umani, che hanno cervello ben identificato, le piante hanno un cervello diffuso: in ogni centimetro della loro composizione assorbono e modificano la loro esistenza. Questo genera un modello di società che porta a far sì che tutti debbano contribuire allo sviluppo: qualsiasi sia il loro ruolo all’interno della società, non c’è una parte sola che comanda, ma c’è un dialogo ed una compartecipazione: una rigenerazione, tornando al New Labour o al Change Labour. Lego questo tema anche a un libro, “Shantaram” di G. D. Roberts, un libro di narrativa, in cui un capo della mafia islamica di Bombay fa una teorizzazione di che cosa è il bene e cosa è il male nel mondo. Il bene è il creare diversità, il male è distruggerla. Il Big Bang è l’inizio della biodiversità, dall’uno il molteplice. Le piante sopravvivono perché creano diversità.
Ora, riportato tutto questo nella società e nella politica, il tema è consentire a tutti di poter vivere la propria vita in sicurezza, quindi proteggere. La sfida vera della modernità è che, in un’epoca di incertezza, bisogna dare alle persone la possibilità di poter condurre la propria vita. Il compito dello Stato è proteggere la diversità: le persone devono poter aspirare a realizzare i propri obiettivi in serenità, se non fanno, ovviamente, danno ad altri, quindi se non tolgono diversità.
Tornando all’esempio di Milano, Milano sta escludendo un pezzo di società. Una sorta di effetto California, un luogo in cui non si trovano più lavoratori: costruire una città senza lavoratori vuol dire non avere più servizi pubblici e rischiare di avere l’effetto bolla che scoppia. Invece bisogna dare la possibilità di vivere a Milano non solo agli avvocati e ai notai, ma anche agli operai e ai tramvieri. Se non c’è il tramviere, non c’è nemmeno il tram. E se non c’è il tram, non c’è la città. Questa è la grande sfida di Milano dei prossimi anni.
Opportunità e capacità. L’alternativa alla meritocrazia io credo sia un sistema in cui si risponde ai bisogni delle persone e si prova ad allargare la base dei diritti. Un conto è la meritocrazia, un altro è il riconoscimento del merito in sé. È necessario ripartire dai bisogni per salvare il merito, o il concetto stesso di merito, con un patto diverso tra lo Stato e i cittadini. Bisogna garantire ai cittadini un accesso reale alle opportunità, dando alla gente gli strumenti per accedervi.
Milano in questo senso è una realtà molto interessante. A Milano le contraddizioni emergono e le diversità non vengono compresse. Ora è tempo di occuparsi di nuovo della diversità. Secondo me, in una città espansiva, chi vuole fare politica o amministrazione deve aver ben presente la realtà e coglierne le complessità. Il New Labour prova a tenere insieme i pezzi, cosa che invece in Europa la sinistra non sembra più capace di fare a causa di una personalizzazione eccessiva e di una polarizzazione che schiaccia ogni riflessione sul sistema e ogni progettualità a medio periodo.
Cosa insegna il Labour e l’esperienza inglese all’Italia?
Intanto che un grande partito può ritrovarsi e fare pensiero senza per forza inseguire la polemica quotidiana, cosa che non è così scontata. Il Labour ha fatto un grande sforzo di ripensamento. Starmer però ha detto che tornando indietro rifarebbe la campagna per Corbyn, anche se oggi Corbyn si candida contro il Labour. C’è una volontà di integrare i percorsi, di provare a rinnovare, ma all’interno di una certa continuità culturale di cui comunque si fa parte. Questo approccio alla politica ha tanto da insegnare alla politica italiana: fare pensiero, accettare la necessità di rinnovare ma provare comunque a mettere insieme. C’è poi un altro aspetto da considerare: la società inglese è diversa rispetto alla nostra e ha molte meno tutele, non solo nel mercato del lavoro. Mi piacerebbe che anche in Italia si ripensasse il ruolo della concertazione.
Siamo decisamente lontani dalla terza via di Giddens e Blair.
Nel programma del Labour di oggi c’è un chiaro riconoscimento del ruolo dello Stato, di come si guida lo Stato e si dice chiaramente che la protezione è l’elemento principale della piattaforma politica.
Se lo Stato torna al centro del dibattito pubblico e riacquista la sua “funzione”, bisogna però anche decidere quale Stato vogliamo, o se lo stato deve prima di tutto controllare o se deve proteggere, e di conseguenza quali risposte vanno date ai cittadini che avvertono un senso di insicurezza.
Sì, concordo. C’è poi un altro aspetto altrettanto importante, cioè la lotta per la giustizia sociale. C’è una parte importante del programma del Labour che riguarda l’elusione fiscale. La giustizia sociale passa dal fisco e dalla distribuzione risorse. Il ritorno dello Stato porta almeno due effetti: il primo è che le classi politiche devono essere composte da persone molto preparate e il secondo è che non ci si può sottrarre alla redistribuzione delle risorse. In Italia purtroppo ci si è abituati a pensare invece che lo Stato non possa funzionare totalmente, e che se lo Stato non riesce a ridistribuire le risorse, allora anche il cittadino si rifiuta di farlo.
Pietro, una riflessione conclusiva a questo punto.
Tutti gli insegnamenti del Labour si scontrano con il fatto che lo Stato possa essere credibile nei confronti dei cittadini. Questo è il grande ostacolo che credo si abbia oggi in Italia: promettere di essere credibile nel rivoluzionare il settore statale, la pubblica amministrazione. La vera sfida è che chiunque vinca a Milano nei prossimi anni sappia riformare e rendere efficiente la pubblica amministrazione.