LO STATO IMPRENDITORE. LO STATO INNOVATORE
Si possono affrontare le grandi transizioni senza una guida diretta dello Stato? Sono molti ormai a pensare che non sia più possibile. Lo Stato, nelle sue molteplici forme, transnazionale, federale, nazionale, eccetera, torna ad essere centrale nelle politiche di programmazione e sviluppo. L’esigenza di politiche di equità che mettano al centro i bisogni di una classe media tremendamente impoverita dalla globalizzazione e non eludano le domande che le grandi transizioni digitale, ambientale e demografica impongono, rende necessari interventi di una tale portata che non sono raggiungibili senza la discesa in campo del “Leviatano”, l’intervento pubblico in economia.
L’economista Marianna Mazzucato, nel suo libro “Lo Stato innovatore”, ha messo in evidenza come gli investimenti statali siano la base dei grandi “salti” di innovazione che abbiamo conosciuto nell’epoca contemporanea. Gli investimenti statali nella difesa, nell’energia, nella ricerca, nelle amministrazioni statunitensi, ad esempio, hanno dato vita a scoperte usate poi dalle aziende private che hanno saputo lavorare sulla loro fruibilità da parte del grande pubblico. “Lo Stato non dovrebbe inchinarsi facilmente ai gruppi di interesse che cercano rendite di posizione e privilegi come i tagli fiscali. Lo Stato dovrebbe invece lavorare per l’interesse di questi stessi gruppi per un maggiore dinamismo con una costante ricerca nella crescita e nel cambio tecnologico” (Stato Innovatore – debunking pubblico contro privato).
Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Biden, hanno fatto tesoro di questo approccio e con ingenti risorse hanno rilanciato l’economia puntando su grandi investimenti federali in settori strategici che hanno rivitalizzato l’economia e ridotto la dipendenza delle materie prime dalla Cina e da altri Paesi asiatici.
L’Europa ha inseguito queste politiche con nuovi fondi che sostengano gli investimenti green e digitali, iniziando, anche con i fondi PNRR, a sviluppare politiche comunitarie di rilancio, di fatto politiche embrionali di guida dell’economia e di programmazione degli investimenti. Recentemente sia Mario Draghi in diversi interventi pubblici, sia Enrico Letta nel recente paper “Much more than a Market” hanno messo in evidenza quanto è necessario puntare ad una guida europea nel proteggere le forniture strategiche e cerare le condizione per la reale sostenibilità di uno sviluppo sostenibile. Enrico Letta ha sostenuto che il rilancio di un nuovo mercato unico passa dallo sviluppo di un nuovo pilastro europeo sulla formazione che dia alta qualità al lavoro e alla ricerca, che sono alla base del futuro economico europeo e della crescita della produttività e del benessere della classe media europea. Mario Draghi ha suggerito l’esigenza di adattare l’Unione Europea ai mutamenti globali adottando politiche di scala comunitaria per superare la frammentazione dei singoli stati nazionali al fine di fornire e finanziare beni pubblici europei e proteggere il rifornimento di risorse indispensabili per la nostra economia, sia in termini di materie prime che di manodopera.
Il Labour non affronta ovviamente il ruolo dell’Europa in questi ambiti, e rimane ancorato a proposte che riguardano il Regno Unito, ma sembra prendere spunto da questo dibattito gemello quando tratteggia le politiche che mirano alla protezione dei lavoratori e al rilancio economico britannico, sviluppando un importante piano di presenza dello Stato per rendere equilibrato lo sviluppo e stabile la crescita economica. “Securonomics” è il neologismo che indica la necessità di assicurare uno sviluppo per tutti, proteggere il lavoro in una “forma dinamica” e un Governo che lavora in sinergia con le imprese, i sindacati, i leader locali e gli enti locali. In un’epoca di profonda incertezza occorre cercare il coinvolgimento della società per sviluppare investimenti pubblici che sblocchino l’azione privata, una sorta di cornice che indica la via dentro la quale il privato può “fare” e “creare” stando nel perimetro dei confini indicati. Le proposte del Labour che toccano l’intervento statale nell’economia britannica sono molteplici, Qui per evidenti ragioni di sintesi intendiamo soffermarci su quelle che si possono considerare più innovative e che possono generare un deciso cambio di scenario, non solo per la Gran Bretagna.
La prima proposta verso la Securonomics è di fatto una pianificazione industriale che sappia eliminare le barriere allo sviluppo, superare le politiche di breve periodo e offrire il supporto di una “finanza paziente” per investimenti con ricadute pubbliche introducendo un pacchetto di norme che facilitino un sistema finanziario che sostenga l’innovazione. Non solo, il Labour propone un “Concilio di Strategia Industriale” permanente che prevede la partecipazione da tutti i territori e che sappia coniugare ricerca, formazione, servizi professionali, economia creativa e manifattura avanzata. La finalità è creare un sistema economico che remuneri correttamente chi innova e promuove formazione e lavori di alta qualità. Questo concetto di protezione “dinamica” supera la logica del controllo e della chiusura e pone al centro l’interesse dei lavoratori. Riconosce la necessità di guidare i processi e non di subirli, e disegna un orizzonte futuro per una sinistra contemporanea, capace di offrire protezione rifuggendo la staticità.
Il secondo elemento è la costituzione di un fondo sovrano britannico che si propone di rafforzare gli investimenti, migliorando le infrastrutture portuali e il sostegno alle filiere produttive, sostenere le gigafactory nel settore automotive, ricostruire l’industria dell’acciaio, sviluppare lo sviluppo della cattura del carbone e la produzione dell’idrogeno verde. A sostegno di questi interventi si ipotizza il coinvolgimento dei fondi pensione nazionali, favorendo maggiori ritorni economici e nuove occasioni di investimenti in campi coerenti con la sostenibilità e il rilancio della manifattura avanzata.
Il terzo aspetto, e forse quello più affascinante e ambizioso, è quello riguardante l’energia. In modo esplicito il Labour si propone di intervenire nel mercato con una nuova società pubblica che ha il compito di abbassare i costi dell’energia per cittadini e imprese, e di abbattere la dipendenza dalle fonti energetiche provenienti da paesi al centro delle tensioni geopolitiche e belliche mondiali, come la Russia di Putin. La proposta ruota attorno alla creazione del “Great British Energy” che avrà il compito di sviluppare energie rinnovabili, come l’eolico e il solare, e puntare su tecnologie emergenti, come l’energia eolica offshore flottante e l’idrogeno. Il finanziamento di questa struttura deriva da una tassa sugli extra profitti delle grandi compagnie petrolifere e del gas, e prevede un investimento iniziale di 8,3 miliardi di sterline. La Great British Energy non lavorerà da sola ma in partnership con l’industria e i sindacati, favorendo la possibilità di co-investire nei progetti ad alta intensità di capitale. Pur essendo una partecipata nazionale, l’impatto in termini di creazioni di posti di lavoro riguarderà da vicino le singole comunità locali, ad esempio si posizionerà in Scozia l’headquarter della società. L’attenzione all’installazione di piccole produzioni locali contribuirà inoltre a sviluppare una capacità distributiva diffusa, utile a superare i colli di bottiglia della rete ed offrire risposte concrete alle esigenze locali, oltre che a promuovere posti di lavoro diffusi sul territorio. Si stima che questo intervento, combinato con provvedimenti legislativi di sostegno, ad esempio il “green prosperity plan, produrrebbe un risparmio di 300 sterline annui per le famiglie in termini di minor spesa energetica e 650 mila nuovi posti di lavoro, in particolare nelle comunità costiere e nelle regioni industriali. Il progetto prevede il dettaglio della capacità degli impianti da installare e non rinuncia al potenziamento del nucleare con l’estensione della vita delle centrali esistenti o lo sviluppo dei nuovi reattori modulari di piccole dimensioni, che possono essere installati in zone industriali.
La modernizzazione delle abitazioni per una migliore efficienza è un ulteriore capitolo di investimento statale su cui ci si impegna per raddoppiare l’esistente stanziamento e rendere così più efficienti 5 milioni di abitazioni nel corso della prossima legislatura. Il “piano per case calde” riguarda non solo il sostegno agli investimenti ma anche il coinvolgimento delle imprese edili e del sistema finanziario per accelerare il processo di efficientamento, aiutando le famiglie ad affrontare serenamente questo percorso senza sacrifici che colpiscano le fasce più deboli. In modo abbastanza prosaico ma sicuramente efficace il manifesto del Labour sottolinea come “nessuno dovrà disfarsi del proprio boiler per effetto dei nostri piani”. L’obiettivo dichiarato del Labour è rendere la finanza britannica la capitale della finanza verde, impegnando ingenti risorse pubbliche per sostenere lo scopo e evitando il dumping ambientale con meccanismi di dazi su produzioni estere che non rispettino gli obiettivi di riduzione delle emissioni, così da coniugare equità con sostenibilità e raggiungere gli standard ambientali previsti dall’agenda dello sviluppo delle nazioni entro il 2030.
L’intero impianto sin qui descritto raffigura un quadro che non elude l’esigenza di guidare le transizioni, in particolare quella ambientale, considerata critica per l’impatto che ha sulla vita delle persone e sull’economia dei nostri ecosistemi, ma la coniuga con una prospettiva di sviluppo che aiuti i lavoratori a vederne e coglierne le opportunità, e senza rinunciare al ruolo del privato, che secondo i labour inglesi ha il compito di rafforzare l’azione pubblica. Un esempio di questo è la proposta di allocare circa 500 milioni di sterline all’anno dal 2026 per incentivare le imprese private che offrono posti di lavoro di qualità in campo ambientale e si impegnano a usare filiere produttive di determinate aree interne.
Si tratteggia uno Stato partner che punta alla manifattura di qualità e protegge le proprie filiere immaginando che nel mondo post Covid e post crisi Ucraina servirà proteggere le filiere produttive e puntare alla qualità del lavoro. Gran parte delle analisi economiche e sociali attorno alla globalizzazione, mostra, numeri alla mano, come le classi lavoratrici dell’Occidente siano le grandi sconfitte dei processi di integrazione economica degli ultimi 30 anni. Note quelle dell’economista serbo-americano Branko Milanovic, altrettanto note quelle del filosofo Michael Sandel, del MIT di Boston. Questi dati inoltre coincidono con una grande fuga dell’elettorato verso i partiti sovranisti, maggiormente abili ad offrire risposte alla paura e all’incertezza generata della transizione, spesso basate sul rifiuto del cambiamento, o su supposte ricette per la stabilità.
La paura è alla base dei profondi cambiamenti culturali e sociali del nostro tempo e la sinistra può tornare a dire la sua non se rinnega il mercato e il capitalismo, che è lo strumento più efficace nel remunerare l’innovazione necessaria per far fronte alle crisi e migliorare le condizioni di vita, ma se sa sviluppare proposte dove lo Stato e i servizi pubblici diventano partner dei lavoratori nella vita di tutti i giorni. Le proposte del Labour hanno il merito di superare l’ideologia dell’ineluttabilità del cambiamento e puntano a mettere in atto ogni soluzione che consenta allo Stato di indirizzare lo sviluppo del mercato e del capitale verso una maggiore equità e giustizia.
È doveroso sottolineare che la forma dello Stato immaginato dal Labour non è quella del potere solo centralizzato: si propone una poderosa devoluzione dei poteri verso città e enti locali, in particolare rispetto a temi come la formazione dei lavoratori, il trasporto, le politiche abitative e il supporto al reinserimento lavorativo. Questo aspetto della proposta che disegna un impianto federale sottolinea l’importanza di politiche flessibili secondo le diverse esigenze, spesso lontane dallo Stato centralista degli uffici pubblici dalla capitale e dei modelli di sviluppo decontestualizzati.
Lo stesso ricorso alle imprese pubbliche partecipate è un elemento di grande interesse perché consente una riflessione utile alle sinistre di tutto l’Occidente su come promuovere politiche pubbliche di qualità.
L’impresa partecipata ha nel corso degli anni mutato pelle e spesso, soprattutto nel caso italiano, viene raffigurata come qualcosa di lontano dal rischio d’impresa. È bene invece che ci si soffermi sul termine impresa, concetto che per sua natura rappresenta un’organizzazione che ha come obiettivo la produzione di benessere, per il quale è necessario un certo rischio di impresa. Certamente, l’innesco dell’impresa partecipata è il denaro pubblico, motivo per cui si tratta di una operazione di “impresa paziente” non volta alla massimizzazione del profitto e quindi del rischio, ma allo sviluppo di know how e in grado di guidare lo sviluppo. Ma in quanto tale l’elemento del rischio, nel concetto di Stato innovatore, non può essere trascurato né annullato. L’economia britannica, così come quella europea, ha sofferto e soffre di periodi di scarsa crescita della produttività e, di conseguenza, dei salari, con il rischio di un ridotta crescita e di una inflazione che seppur moderata si presenta come una tassa pericolosa che colpisce i più deboli. L’unica ricetta possibile è riconoscere allo Stato la capacità di guidare l’economia, di promuovere investimenti tramite unità che possano prendersi dei rischi e incentivare il privato a rilanciare i propri investimenti seguendo le medesime finalità.
È evidente che questa strada potrebbe portare ad una nuova era di sviluppo contrassegnata però anche da una maggiore inflazione (i costi di approvvigionamento di un accorciamento delle filiere e di un intervento statale per aumentare gli investimenti potrebbe produrre questo effetto). È per questo fondamentale lavorare su strumenti che tutelino i lavoratori e il loro potere d’acquisto. Il Labour si concentra nella promessa di varare nei primi 100 giorni di Governo un piano dedicato alle paghe ad un nuovo accordo sul lavoro, coinvolgendo imprese, sindacati e società civile per proibire i contratti pirata, per combattere il fenomeno delle riassunzioni post licenziamento, delle dimissioni in bianco, dei licenziamenti senza giusta causa, e per contrastare il lavoro povero.
Il Labour propone di legare la definizione dei salari minimi al costo della vita, senza definire un valore minimo per legge ma legando il lavoro a salari accettabili per affrontare una vita serena in un’epoca di grandi incertezze legare al futuro. Il lavoro in una accezione più sistemica è considerato lo strumento per migliorare la propria condizione di vita ma non solo: è anche una responsabilità individuale. “Chi può lavorare, deve lavorare” si sottolinea nel Manifesto. Se il lavoro e la formazione di qualità sono per Letta lo strumento di crescita del mercato unico europeo, analogamente nel Regno Unito Keir Stramer ed i labour pensano a grandi investimenti in innovazione e transizione ambientale e a come offrire ai lavoratori la chances di partecipare agli utili della crescita economica generata da questi investimenti. Un futuro caratterizzato dalla necessità di rispondere ai bisogni più che a quella di premiare il merito. E riconoscendo come abbiamo visto al mercato la capacità di remunerare l’innovazione ma con un ruolo di uno Stato, con le sue partecipate e con la devoluzione dei poteri, di poterne guidare l’azione e la direzione costantemente nel tempo, guidando la comunità imprenditoriale senza inchinarsi ad interessi particolari.
DI POLITICA ESTERA SI MUORE. O SI VIVE.
La citazione di John F. Kennedy descrive bene le circostanze con cui si è dovuto confrontare Keir Starmer nell’aprile 2020, quando divenne leader del partito laburista britannico dopo la disastrosa sconfitta di Corbyn nelle elezioni politiche del 2019. La peggiore sconfitta del Labour dal 1935.
Al momento dell’elezione, Starmer ereditava una situazione estremamente difficile, nella quale le scelte di politica estera rappresentavano una ingombrante eredità a perdere. Prima della sua elezione, a febbraio 2020, più del 50% dell’elettorato giudicava il Labour inaffidabile, e solo il 16% degli elettori sarebbe stato pronto a mettersi nelle mani di un governo guidato dai laburisti. L’aspetto sul quale l’elettorato britannico sembrava meno propenso ad affidare a un governo laburista era la sicurezza e la difesa. Pochi giorni prima del cambio alla segreteria, solo l’11% degli elettori giudicava il partito laburista capace di gestire questi due aspetti, una distanza dai conservatori di quasi 30 punti percentuali. Neppure sulle politiche per le imprese o per quelle fiscali il Labour risultava così poco credibile.
L’eredità dell’estremismo di Corbyn si faceva sentire. Secondo molti osservatori, la politica estera di Corbyn è stata la ragione della sconfitta nel 2019. Prima della sua ascesa alla segretaria, Corbyn era noto alle cronache politiche per le sue posizioni anti-NATO, vicine ai fratelli Castro e a Chavez, per la sua opposizione all’ingresso del Regno Unito nella Comunità economica europea nel 1975. Divenuto segretario del Labour, venne criticato per la posizione ambigua tenuta durante la campagna per il referendum sulla Brexit nel 2016, per le posizioni contrarie alla deterrenza nucleare. Ma fu la reazione all’avvelenamento dell’ex spia russa Sergey Skripal nel 2018, che allontanò definitivamente i cittadini dal Labour. Mentre in tutta la Gran Bretagna si discuteva di come fosse possibile che dei killer del Cremlino potessero agire indisturbati in una città di provincia, le reazioni della leadership del Labour in quella occasione si distinsero per le frasi con quali si dava il beneficio del dubbio a Putin. La credibilità di Corbyn come politico capace di affrontare lue minacce crescenti della politica internazionale venne definitivamente compromessa. Non è bastato provare poi, in vista delle elezioni del 2019, a dotarsi di una dottrina di politica internazionale basata sui principi, riprendendo la lezione di Robin Cook e la sua idea di una politica estera.
L’impegno di Starmer per cambiare il partito laburista è iniziato quindi da qui. Da subito, fin da quell’aprile 2020 caratterizzato dal lockdown e dalla risposta al COVID, Starmer ha definito i due elementi essenziali del proprio progetto, per il Labour e per il Regno Unito: una politica estera di chiara collocazione occidentale e filo-atlantista, con esplicito riferimento alla causa ucraina da sostenere senza indugi, e una politica interna basata su una forte agenda sociale e di interventismo statale, ma con riguardo anche a temi generalmente associati ad una linea politica più moderata. Se da una parte quindi Starmer è riuscito a concentrare gran parte dell’attenzione del suo programma sui bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, esprimendo la volontà del partito di mettersi a loro disposizione, dall’altra si è anche riappropriato di temi da tempo monopolizzati dai conservatori, come la sicurezza dei confini e quella interna nelle città.
In questo l’agenda di politica estera è stata fondamentale per presentarsi come forza di governo affidabile e credibile. Starmer ha deciso da subito di non rimettere in discussione il risultato del referendum sulla Brexit. Mi è capitato di incontrare il suo gruppo dirigente nei primi mesi del 2022: già allora, dicevano esplicitamente che era troppo recente il voto, troppo complicate le conseguenze per rimettere in discussione tutto e terremotare di nuovo dil paese. La eventuale decisione di far rientrare il Regno Unito nell’Unione europea – mi è stato detto da David Lammy, ministro ombra degli Esteri – sarà un compito per una generazione di laburisti dopo Starmer. Il Labour di oggi sente come dovere principale il rimettere in carreggiata un paese profondamente segnato, sia dal punto di vista politico, che economico e sociale, dagli effetti nefasti della Brexit. Da questo punto di vista il programma elettorale e la cornice narrativa con cui il Labour si presenta alle elezioni rispecchia la retorica con cui Biden si è candidato negli Stati Uniti 4 anni fa: riunire un paese profondamente diviso dalle politiche della destra, ricucire una comunità segnata dai discorsi di odio e dalle partigianerie.
Il futuro governo Starmer non mancherà però di rilanciare e approfondire le relazioni con l’Unione europea e i suoi stati membri nelle aree prioritarie per il futuro del Regno Unito, a partire dalla difesa e dal cambiamento climatico. A riprova di questo rinnovato slancio verso l’Europa, Starmer ha messo in piedi due azioni. Da un lato, un delegato del suo governo ombra, Nick Thomas-Symonds, nel 2023 ha visitato tutte le capitali dei paesi europei per spiegare che, in caso di vittoria del Labour, il nuovo governo proporrà all’Unione europea un nuovo patto tra Regno Unito e Unione Europea sulla difesa strutturato intorno alle necessità di sicurezza del continente, con al centro l’Ucraina. La visita in Italia di Thomas-Symonds è avvenuta a fine novembre 2023. In secondo luogo, dopo alcuni anni di assenza, il Labour ha ripreso ad essere una vivace presenza tra i socialisti europei, famiglia politica di cui non ha mai smesso di essere membro.
Una grande parte del recupero della credibilità del Labour in politica estera si è giocata sulla risposta all’invasione russa dell’Ucraina. Si è trattato di una partita da giocare fuori casa. Infatti, c’è un solo paese al mondo dove Boris Johnson ha una sua credibilità solida e diffusa, ed è l’Ucraina. I cittadini ucraini sono ancora grati all’ex primo ministro britannico per essere stato il primo capo di governo occidentale a recarsi in una Kyiv spettrale ai primi di aprile 2022, mostrando un innegabile coraggio in una passeggiata insieme a Volodymir Zelensky. Anche per questo, Starmer ha dovuto aspettare le dimissioni di Johnson e l’appannarsi della stella dei conservatori per recarsi a Kyiv e incontrare per la prima volta Zelensky, viaggio avvenuto solo nel febbraio del 2023. Dall’opposizione il Labour non ha mai fatto mancare il sostegno alla resistenza ucraina e ha sempre ribadito che una volta al governo avrebbe fatto tanto quanto hanno fatto i conservatori: un impegno a fianco dell’Ucraina definito “ferreo” nella ultima visita fatta dai ministri ombra degli esteri, David Lammy, e della Difesa, John Healey, a Kyiv il 13 maggio 2024. Durante la visita i due parlamentari hanno ribadito che il Labour “starà dalla parte dell’Ucraina finché non vincerà. La cooperazione militare di Mosca con Pechino, Tehran e Pyongyang richiede un rafforzamento della cooperazione con gli alleati della Gran Bretagna per dimostrare che siamo impegnati a fianco dell’Ucraina per sconfiggere l’invasione imperialista di Putin. La nostra prima priorità in materia di politica estera e di sicurezza sarà l’Ucraina”.
Le difficoltà di Starmer in politica estera sono emerse sul terreno più complicato per la sinistra occidentale, ovvero sulla posizione da tenere rispetto alla guerra tra Israele e Hamas. Anche nel partito laburista britannico c’è stata una spaccatura sia nel gruppo parlamentare (con la rivolta di una parte del gruppo parlamentare che da subito voleva una richiesta di cessate il fuoco e una posizione più netta a sostegno del riconoscimento dello stato palestinese), sia nella base del partito, sia infine con l’elettorato arabo-musulmano. L’equilibrio sulla questione è stato trovato nella posizione contenuta nel manifesto del Labour, che sostiene in un passo molto importante come “una pace duratura e la sicurezza nel Medio oriente sarà un focus immediato. Il Labour continuerà a fare pressione perché si arrivi a un cessate il fuoco immediato, al rilascio di tutti gli ostaggi, il rispetto della legalità internazionale e l’aumento immediato degli aiuti a Gaza. Il diritto ad avere uno Stato palestinese è un diritto inalienabile del popolo palestinese. Non è un regalo fatto da nessun vicino, ed è essenziale per la sicurezza di Israele. Ci impegniamo a riconoscere lo Stato di Palestina come parte di un rinnovato processo di pace che sfoci in una soluzione di sue statiche veda Israele coesistere in sicurezza a fianco di uno stato palestinese reale e sovrano”.
Uno dei punti chiave della campagna di Starmer per la leadership del Labour nel 2020 è stato l’impegno di liberare il partito laburista dall’antisemitismo. Il segretario certamente ha una sensibilità personale sulla questione, avendo sposato una donna di religione ebraica e avendo educato i due figli nell’ebraismo. Ma la sua non è stata una scelta solo dettata dal dato biografico personale, quanto dalla convinzione politica che una sinistra che non affronta il pregiudizio anti-ebraico è una sinistra destinata a pericolose derive estremiste e anti-democratiche. “L’antisemitismo è stata una macchina sul nostro partito”, ha detto Starmer il giorno della sua elezione a leader, scusandosi con la comunità ebraica britannica e impegnandosi a contrastare questa forma di razzismo. Durante la segreteria di Corbyn infatti il partito laburista era stato violentemente attraversato da accuse di antisemitismo a tutti i livelli, che la segreteria di Corbyn non era riuscita a dissipare. Alcuni parlamentari lasciarono il Labour per questa ragione nel 2018, molti tesserati di religione ebraica non rinnovarono l’iscrizione e varie organizzazioni ebraiche invitarono a non votare il Labour di Corbyn alle elezioni del 2019. Dal giorno del suo insediamento, Starmer è stato inflessibile su questo tema: ha dato il via a una inchiesta interna indipendente che ha portato alla censura e alla sospensione di alcuni parlamentari e membri del partito, tra cui lo stesso Corbyn. La risposta all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre e le discussioni relative alle azioni del governo di Netanyahu, e a come favorire un nuovo processo di pace, hanno sì segnato il dibattito interno del partito, ma non lo hanno spaccato in modo irreparabile.
Un altro caposaldo della politica estera del Labour è l’enfasi sulla diplomazia del clima. Si tratta di una priorità dell’azione diplomatica di Londra già da alcuni anni, condivisa dagli stessi conservatori che ne avevano fatto un cardine della propria azione globale dopo la Brexit. Il futuro governo laburista intende proseguire lungo questo impegno, rendendo coerente l’azione internazionale con una agenda climatica interna più robusta e ambiziosa.
La gestione delle migrazioni è un’altra questione scivolosa per il Labour da almeno dieci anni. La campagna per la Brexit ha vinto il referendum con un cartellone di propaganda fraudolenta che paventava il rischio di invasione del Regno Unito dall’Europa continentale. La frenesia anti-immigrazionista dei conservatori è arrivata a creare un sistema di deportazioni forzate verso il Rwanda che è insieme costosissimo, inefficiente e inefficace. L’ossessione migratoria dei conservatori è ancora più paradossale se si pensa che il Regno Unito è un Paese in cui l’integrazione è meno problematica rispetto al resto d’Europa e persone con un background migratorio ricoprono tutti i ruoli possibili della società, dell’economia e della politica. Fino a inizio marzo, né il Regno Unito (guidato da Rishi Sunak, di origini indiane) né la Scozia (guidata allora da Humza Yousaf, di discendenza pakistana) né il Galles (guidato da Vaughan Gething, nato in Zambia) né l’Irlanda del Nord (il cui governo era presieduto da due donne) erano guidati da uomini di origine britannica. Questa dovrebbe essere la fotografia di un Paese che è orgoglioso della propria identità multiculturale. E invece i conservatori continuano a martellare sul tasto della paura degli stranieri.
Per questo il Labour non poteva non avere una propria idea di come gestire le migrazioni. La piattaforma del Labour si è quindi concentrata a delineare come si possa stroncare il traffico illegale di persone e come si debba favorire una gestione seria, nel pieno della sicurezza e legalità, dei flussi migratori. Anche in questo caso si tratta di un cambiamento di posizione molto netto che porta però il Labour ad avere una propria agenda, concreta e alternativa, dopo anni di imbarazzo e silenzio sul tema.
Un partito che ha l’ambizione di governare non può limitarsi a trattare le questioni internazionali per punti, ma deve dotarsi di una lettura complessiva della fase e del ruolo del proprio paese. Il ministro degli Esteri ombra, David Lammy, in una discorso alla Fabian Society e poi in un articolo per Foreign Affairs, ha recentemente tracciato i capisaldi del realismo progressista che animerà la politica estera del nuovo governo. Il partito laburista ha intenzione di fare una politica estera progressista perché basata sui valori di uguaglianza, stato di diritto e internazionalismo. Ma la loro sarà una politica estera realista, perché il Labour vuole darsi degli obiettivi concreti e tangibili da raggiungere nei limiti concessi dalla realtà globale, che è sempre più buia, piena di conflitti e di crisi in ogni angolo del globo. Lammy ha spiegato come la posizione del Labour debba molto sia al realismo di Ernest Bevin sia alle idee di Robin Cook, secondo cui la politica estera deve essere sempre al servizio dei principi. Nel tratteggiare la nuova visione di politica internazionale, il futuro ministro degli esteri ci ha tenuto a sottolineare che il realismo non va confuso con il pessimismo, ma deve essere uno strumento per raggiungere degli obiettivi progressisti.
Vista dall’Italia, la lunga strada percorsa dal Labour sulla politica estera è di ispirazione. Viviamo in un’epoca di crisi globali e conflitti internazionali che segnano la fine di alcuni capisaldi dell’ordine internazionale nato con la fine della guerra mondiale. Le istituzioni multilaterali sono in crisi; i legami, soprattutto di tipo economico, che pensavamo avrebbero evitato l’esplodere delle guerre non bastano più ad arginare la volontà aggressiva di alcuni dittatori. Le autocrazie avanzano e la fede nella democrazia vacilla, in occidente così come nei paesi di più recente democratizzazione. I diritti delle donne sono sempre più messi in discussione, non solo da movimenti terroristi con una matrice ideologica islamista, ma anche dai regimi autoritari e dalla destra reazionaria in occidente. In tutti questi sconvolgimenti, i governi democratici hanno la responsabilità di trovare strategie per rispondere alle profonde inquietudini che agitano l’elettorato. In particolare nella sinistra occidentale, alcune delle domande del nostro tempo fanno emergere contraddizioni e ambivalenze che alcuni preferirebbero non dover affrontare. Il Labour di Starmer ha deciso di non sottrarsi dalla propria responsabilità storica e ha fatto delle scelte di campo precise. L’invasione russa dell’Ucraina, il difficile rapporto con Netanyahu, il ruolo del proprio Paese nelle grandi sfide globali a partire dalla diplomazia climatica sono alcuni dei nodi gordiani che hanno richiesto al Labour un lavoro serio e approfondito di discussione e di scelte. Sono nodi che non possono essere evitati tenendo insieme tutto e il contrario di tutto. Sono scelte di fondo che vanno percorse perché identificano una visione chiara del mondo. Da queste scelte, Keir Starmer ha fatto poi discendere anche una precisa agenda di trasformazione economica, ed energetica. La strada scelta dal Labour di Starmer è l’unica possibile per evitare di restare spettatori di eventi sconvolgenti e sanguinosi che accadono fuori dai nostri confini. È l’unico modo per ridare protagonismo al proprio paese. È anche la migliore risposta per porre fine all’illusione di una disconnessione nostalgica e mendace che i conservatori hanno inflitto al Regno Unito con la Brexit. In tempi come questi, è dalle scelte di politica estera che si misura la credibilità di un partito. Il Labour di Starmer questa lezione, impartita dall’estremismo di Corbyn e dal disastro della Brexit, l’ha fatta propria. E i risultati si vedono.