IL MANIFESTO
Queste elezioni sono il cambiamento. L’occasione di fermare l’eterno caos dei Conservatori che ha danneggiato direttamente le finanze di ogni famiglia britannica. Il momento in cui possiamo voltare pagina rispetto a un insieme di idee che, nel corso di 14 anni, ci hanno sempre reso più vulnerabili in un mondo sempre più instabile. Sono l’opportunità di iniziare il lavoro di rinnovamento nazionale. Sono la ricostruzione del nostro Paese, affinché possa ancora una volta servire gli interessi dei lavoratori.
Restituire speranza
Ogni grande Nazione è tenuta insieme da convinzioni condivise. A chi guarda da fuori possono non sembrare eccezionali o distintive, ma sono essenziali per un senso di scopo collettivo nazionale. La Gran Bretagna non è da meno, ma in questo momento due delle nostre convinzioni più importanti sono in grave pericolo.
La prima è che la politica dovrebbe essere guidata da uno spirito di servizio al Paese, non da considerazioni di partito o da interessi personali. La seconda: se lavori duramente – chiunque tu sia, da qualunque parte tu abbia iniziato la tua vita – la Gran Bretagna è un Paese che rispetterà il tuo contributo e ti darà delle giuste possibilità per andare avanti.
Quando penso a queste convinzioni, è difficile non pensare alla mia infanzia. Allora, come oggi, il posto della Gran Bretagna nel mondo era incerto. Allora, come oggi, la nostra economia era attanagliata da una crescita stentata e da una crisi legata al costo della vita che colpiva i lavoratori.
Eppure, a quei tempi, c’era un certo grado di sicurezza nel poter dare per scontate queste due convinzioni fondamentali. Per le famiglie come la mia questo era di grande conforto. La consapevolezza che la Gran Bretagna avrebbe offerto ai nostri figli un futuro migliore ci dava speranza. Una speranza che può non sembrare altisonante o particolarmente idealistica, ma sulla quale le famiglie come la mia potevano costruire una vita.
Fermare il caos
Per restituire questa speranza dobbiamo innanzitutto porre fine al caos dei Conservatori. Il declino visibile delle nostre comunità – famiglie appesantite da mutui che crescono, persone in attesa sulle barelle del pronto soccorso, liquami riversati nei fiumi – non è frutto del caso. È piuttosto il risultato diretto di un partito di governo che, ancora una volta, mette i propri interessi e le proprie ossessioni al di sopra delle questioni che riguardano le famiglie.
Il risultato è un circolo vizioso, il declino che alimenta il caos, il caos che alimenta il declino, un circolo vizioso che continuerà se i Conservatori torneranno al governo per altri cinque anni. Solo un governo laburista può spezzare questo ciclo e fermare il caos.
Voltare pagina
Dobbiamo voltare decisamente pagina rispetto alle idee conservatrici che hanno creato questo caos. Il mondo è diventato sempre più instabile, con una grande guerra in Europa per la prima volta da una generazione e minacce sempre più gravi per il tenore di vita dei lavoratori. Questo “tempo dell’insicurezza” richiede che il governo si faccia avanti, non che si metta da parte.
Ciò significa ritornare a costruire le basi del buon governo: sicurezza nazionale, confini sicuri e stabilità economica. Ma richiede anche una partnership duratura con le imprese per ottenere la crescita economica di cui abbiamo bisogno.
Occorre concentrarsi maggiormente sulla strategia a lungo termine, non sulle distrazioni a breve termine che possono animare Westminster. E richiede un rifiuto definitivo e totale dell’idea, tossica, che la crescita economica sia un regalo fatto dai pochi ai molti.
Che si tratti del crollo della sterlina per tagliare le tasse all’1% più ricco, del degrado dei servizi pubblici a causa di errori fatti dalle banche, o dei mancati investimenti nell’energia pulita che ci ha lasciati esposti quando Putin ha invaso l’Ucraina, gran parte di ciò che la Gran Bretagna ha passato negli ultimi 14 anni si spiega con l’incapacità dei conservatori di affrontare il futuro. Solo il Labour può voltare pagina.
Ricostruire il nostro Paese
Dobbiamo ricostruire il nostro Paese. Non sarà facile. Non solo perché non c’è nessuna soluzione rapida al pasticcio che i Conservatori hanno causato. Ma anche perché i loro fallimenti hanno intaccato la nostra fiducia nella capacità della Gran Bretagna di raggiungere grandi traguardi. Io rifiuto tutto questo con tutto il mio essere.
Nonostante il caos che ha colpito la Gran Bretagna, il Paese che io vedo è quello in cui i lavoratori non si sono mai traditi tra di loro. Si sono uniti durante la pandemia, saltando matrimoni, funerali e ultimi addii, per salvare le vite di persone che non incontreranno mai. Hanno dato fondo a tutte le energie negli anni dell’austerità, per continuare a fornire i servizi pubblici di cui la gente aveva bisogno. E durante la crisi del costo della vita, hanno trovato un modo per sostenere chi è meno fortunato di loro.
Siamo ancora una grande nazione. Possiamo ancora realizzare grandi cose. Quello che ci manca è un governo che sappia coniugare l’ambizione dei lavoratori per la loro famiglia e la loro comunità con un piano credibile a lungo termine. Questo manifesto è quel piano. Tutto è stato calcolato e ogni progetto finanziato e costruito sulle fondamenta del senso di responsabilità fiscale.
Al centro ci sono cinque obiettivi nazionali con i primi passi chiari per iniziare il viaggio di ricostruzione e con un obiettivo chiaro per tutti coloro che investono nel futuro della Gran Bretagna. Una nuova Gran Bretagna, dove la ricchezza viene creata in ogni comunità. Dove l’opportunità dell’energia pulita britannica viene sfruttata per ridurre le bollette. Dove il centro della vostra città è stato rivitalizzato e tutti si sentono sicuri quando camminano per le strade. Dove si può andare a lavorare sapendo di essere trattati con dignità e rispetto. Dove i nostri figli sono dotati delle competenze necessarie per prosperare in futuro. Dove il nostro servizio sanitario nazionale è di nuovo all’avanguardia nell’assistenza sanitaria. E dove noi dimostriamo che la politica può essere al servizio del Paese.
È tempo di cambiamenti
So che alcuni storceranno il naso di fronte a questa frase. Ma servire il Paese è l’unica ragione per cui sono entrato in politica. Lo scopo principale della mia leadership nel partito laburista è stato quello di trascinare il mio partito fuori dal vicolo cieco della “politica dei gesti” e riportarlo nuovamente al servizio dei lavoratori. Ho cambiato il mio partito, ora voglio avere la possibilità di cambiare il Paese.
Per riuscirci abbiamo bisogno che ciascuno, e che ogni comunità, faccia la sua parte. So che dopo tutto quello che avete passato negli ultimi 14 anni è una richiesta difficile da fare. Ma mi aspetto anche che, nel profondo, sappiate che questo è ciò di cui il nostro Paese ha bisogno ora: porre fine al caos, voltare pagina e ricostruire con pazienza e determinazione il nostro Paese.
Vi invito quindi a unirvi a noi in questo sforzo comune di rinnovamento nazionale. È tempo di cambiare la Gran Bretagna. Keir Starmer, leader del Partito Laburista.
CHANGED LABOUR
Questi sono i primi passi del Labour per cambiare:
1. Garantire la stabilità economica con impegni di spesa seri e credibili, in modo da far crescere la nostra economia e mantenere il più possibile basse le tasse, l’inflazione e i mutui.
2. Ridurre i tempi di attesa del Servizio sanitario nazionale con 40.000 appuntamenti in più a settimana, la sera e nei fine settimana, coperti finanziariamente con i proventi derivanti dalla lotta all’evasione e all’elusione fiscale.
3. Lanciare una nuova Autorità per la sicurezza delle frontiere con centinaia di nuovi investigatori specializzati e utilizzando i poteri dell’antiterrorismo per stroncare le bande criminali di scafisti.
4. Creare la Great British Energy una società pubblica per l’energia pulita, per tagliare definitivamente le bollette e aumentare la sicurezza energetica, finanziata con una tassa sui giganti del petrolio e del gas.
5. Un piano contro i comportamenti antisociali con un maggior numero di poliziotti di quartiere, pagati mettendo fine agli appalti dispendiosi, con nuove sanzioni severe per i trasgressori della legge, e una nuova rete di centri di aggregazione giovanile.
6. Assumere 6.500 nuovi insegnanti nelle materie chiave per preparare i bambini alla vita, al lavoro e al futuro, finanziati eliminando le agevolazioni fiscali per le scuole private.
Questi sonno invece i cinque obiettivi del labour per ricostruire la Gran Bretagna:
1. Rilanciare la crescita economica per garantire la più alta crescita a lungo termine del G7, con buoni posti di lavoro e crescita della produttività in ogni parte del Paese, per far sì che tutti, e non solo alcuni, stiano meglio.
2. Fare della Gran Bretagna una superpotenza dell’energia pulita: per ridurre le bollette, creare posti di lavoro e garantire sicurezza energetica con un’elettricità più economica e a zero emissioni di carbonio entro il 2030, accelerando verso questo obiettivo.
3. Riprenderci le nostre vie e le nostre strade, dimezzando i crimini violenti e riportando ai massimi livelli la fiducia nella polizia e nel sistema di giustizia penale.
4. Abbattere le barriere alle opportunità riformando i nostri sistemi di cura dell’infanzia e di istruzione, per garantire che le ambizioni dei nostri giovani non siano limitate dalla loro classe di provenienza.
5. Costruire un servizio sanitario nazionale adatto al futuro, che sia presente quando le persone ne hanno bisogno; con meno vite perse per le maggiori cause di morte; in una Gran Bretagna più giusta, dove tutti vivono bene più a lungo.
Per realizzare il cambiamento di cui la Gran Bretagna ha bisogno sarà necessaria perseveranza. Il punto di partenza per realizzare questi obiettivi è garantire che le basi del buon governo siano quelle giuste. Noi laburisti garantiremo una forte sicurezza nazionale, confini sicuri e stabilità economica. Partendo da queste basi, abbiamo già delineato i primi passi per il cambiamento. Il costo di tutte le politiche che seguono in questo manifesto è stato calcolato e il loro finanziamento preventivato.
Sicurezza nazionale
Nessun tentativo di raggiungere i nostri obiettivi funzionerà se non realizziamo il primo dovere di ogni governo: mantenere il paese sicuro. La pace e la sicurezza si guadagnano con fatica. Richiedono un’attenzione costante. Negli ultimi 14 anni le tensioni geopolitiche sono aumentate, mentre i conservatori hanno indebolito le nostre forze armate. Ora Putin sta cercando di rompere la sicurezza europea con la sua invasione su larga scala dell’Ucraina. I laburisti affronteranno questa sfida rafforzando le nostre forze armate e proteggendo la nostra sicurezza nazionale.
Il nostro impegno nei confronti del deterrente nucleare del Regno Unito è assoluto. È una salvaguardia vitale per il Regno Unito e per i nostri alleati della NATO. Come partito che ha fondato la NATO, manteniamo il nostro impegno incrollabile nei confronti dell’alleanza e applicheremo un test NATO ai principali programmi di difesa per garantire il pieno rispetto dei nostri obblighi.
Negli ultimi anni, le minacce alla nostra sicurezza si sono moltiplicate e diversificate. Oltre alle maggiori minacce convenzionali, ci troviamo di fronte al crescente emergere della guerra ibrida, compresi gli attacchi informatici e le campagne di disinformazione che cercano di sovvertire la nostra democrazia. Per garantire che il Regno Unito sia pienamente preparato ad affrontare queste minacce interconnesse, i laburisti condurranno una revisione strategica della difesa entro il primo anno di governo e definiranno il percorso per spendere il 2,5% del PIL per la difesa. Dagli avvelenamenti a Sergei Skripal ai complotti da parte del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche iraniane, le minacce da parte di Stati ostili o di gruppi para-statali sono in aumento, e la Gran Bretagna non dispone di un quadro completo per proteggere i suoi cittadini. I laburisti prenderanno l’approccio utilizzato per affrontare il terrorismo non statale e lo adatteranno per affrontare le minacce alla sicurezza interna. Il terrorismo rimane una minaccia significativa. I laburisti introdurranno la “legge Martyn” per rafforzare la sicurezza degli eventi e dei luoghi pubblici. Aggiorneranno le norme contro l’estremismo, anche online, per impedire che le persone vengano radicalizzate e attratte da ideologie dell’odio. Garantiranno inoltre che la polizia e i servizi di intelligence abbiano i poteri e le risorse necessarie per proteggere il popolo britannico dal terrorismo e dallo spionaggio ostile.
Frontiere sicure
La Gran Bretagna è tollerante e “compassionevole”. Abbiamo un’orgogliosa tradizione di accoglienza di persone in fuga da persecuzioni e abusi. Programmi come “Homes for Ukraine”, i visti umanitari per Hong Kong e il programma di ri-locazione per i siriani hanno aiutato molto i rifugiati in cerca di un paese sicuro. Ma il sistema deve essere controllato e gestito e abbiamo bisogno di confini “forti”. La crisi dell’arrivo di migranti con piccole imbarcazioni dal Canale della Manica, alimentata da pericolose bande di contrabbandieri criminali, sta minando la nostra sicurezza e costa vite umane.
Piuttosto che un piano serio per affrontare questa crisi, i conservatori non hanno pensato ad altro che espedienti disperati. La loro politica principale – deportare un numero esiguo di richiedenti asilo in Ruanda – è già costata centinaia di milioni di sterline. Anche se dovesse iniziare a pieno regime, questo programma può gestire meno dell’1% dei richiedenti asilo in arrivo. Non può funzionare. Al caos nella Manica è corrisposto il caos in patria. Le leggi inattuabili dei conservatori hanno creato un arretrato permanente di decine di migliaia di richiedenti asilo, che soggiornano indefinitamente in alberghi che costano ai contribuenti milioni di sterline a settimana. Il Labour fermerà il caos e darà la caccia alle bande criminali che guadagnano da questa crisi. Creeremo una nuova Autorità per la sicurezza delle frontiere, con centinaia di nuovi poliziotti, agenti di intelligence e agenti di polizia transfrontaliera. Il tutto sarà finanziato ponendo fine al dispendioso partenariato per la migrazione e lo sviluppo economico con il Ruanda. Questa nuova Autorità lavorerà a livello internazionale e sarà supportata da nuovi poteri in “stile” antiterrorismo, per perseguire, distruggere e arrestare i responsabili di questo vile commercio. Cercheremo un nuovo accordo di sicurezza con l’UE per garantire l’accesso all’intelligence in tempo reale e consentire alle nostre squadre di polizia di condurre indagini congiunte con le loro controparti europee.
I laburisti volteranno pagina e riporteranno l’ordine nel sistema di asilo, in modo che operi in maniera rapida, risoluta ed equa e che le regole siano applicate correttamente. Assumeremo altri operatori per smaltire l’arretrato dei conservatori e chiudere gli alberghi dell’asilo, risparmiando miliardi di sterline dei contribuenti.
I laburisti istituiranno una nuova unità per i rimpatri e l’applicazione delle norme, con 1.000 persone in più, per accelerare gli allontanamenti verso Paesi sicuri delle persone che non hanno il diritto di rimanere qui. Negozieremo ulteriori accordi di rimpatrio per accelerare i rimpatri e aumentare il numero di Paesi da considerarsi sicuri in cui i richiedenti asilo respinti possono essere rapidamente rimandati. Inoltre, agiremo a monte, collaborando con i partner internazionali per affrontare le crisi umanitarie che spingono le persone a fuggire dalle loro case e per rafforzare il sostegno ai rifugiati nella loro regione d’origine.
Stabilità economica
Ogni impegno assunto da un governo laburista sarà fondato sui conti in ordine e sulla stabilità economica. Questo è un principio non negoziabile per il Partito Laburista. C’è chi dice che non ci sono limiti a ciò che il governo può spendere, o che i tagli alle tasse si ripagano da soli. Noi rifiutiamo questa ideologia, sbagliata, che è stata messa a dura prova dal disastroso “mini-bilancio” dei conservatori durante il governo di Liz Truss. I cittadini stanno ancora pagando il prezzo di quegli impegni attraverso l’aumento dei costi dei mutui, e i contribuenti continuano a pagare il conto per l’aumento degli interessi, il che significa meno soldi per gli investimenti e i servizi pubblici. L’impatto non si è limitato qui. La sconsideratezza dei conservatori ha inviato un segnale di instabilità in tutto il mondo che ha danneggiato la nostra reputazione, rendendo la Gran Bretagna un luogo meno attraente per gli investimenti delle imprese.
Il caos non è finito. I conservatori, disperati, hanno fatto ora altri tagli alle tasse non “coperti” e promesse di spesa di portata superiore alla capacita di spesa del “mini-bilancio”. Questo sarebbe devastante per le famiglie di tutto il Paese. Il Labour volterà pagina rispetto a questo caos economico. Il nostro approccio si basa su una forte disciplina fiscale.
Le nostre regole fiscali sono due. Il bilancio corrente deve essere in equilibrio, in modo che i costi quotidiani siano coperti dalle entrate. Il debito deve diminuire in rapporto all’economia entro il quinto anno di previsione. Queste regole ci consentono investimenti prudenti nella nostra economia. Questo rappresenta una chiara rottura rispetto alle politiche dei conservatori, che hanno creato un incentivo a tagliare gli investimenti; un approccio a breve termine che ignora l’importanza di far crescere l’economia. I laburisti troveranno un equilibrio tra la priorità degli investimenti e l’urgente necessità di risanare le finanze pubbliche. Non ci sarà alcun ritorno all’austerità […].
I laburisti salvaguarderanno il denaro dei contribuenti. Metteremo fine al legame tra l’accesso ai ministeri e la possibilità di ottenere appalti pubblici. Nomineremo un commissario per la corruzione e useremo tutti i mezzi possibili per recuperare il denaro pubblico perso nelle frodi legate alla pandemia e nei contratti non eseguiti. E non tollereremo frodi o sprechi da nessuna parte, né nella sicurezza sociale né nell’uso eccessivo di consulenti.
Oltre a finanze nazionali solide, la Gran Bretagna ha bisogno anche di finanze familiari solide. I conservatori hanno lasciato le famiglie alle prese con un costo della vita aumentato, i laburisti interverranno a sostegno delle famiglie, affrontando le cause di fondo della crisi.
Abbatteremo il costo dell’energia. Ridurremo i prezzi dei prodotti alimentari eliminando gli ostacoli al commercio. Renderemo gli alloggi più accessibili, amplieremo l’accesso ai servizi per l’infanzia e renderemo il lavoro ben pagato. Sosterremo le famiglie con bambini introducendo la prima colazione gratuita in ogni scuola primaria. I laburisti manterranno inoltre i tassi dei mutui la più bassa possibile, con una Banca d’Inghilterra forte e indipendente che continuerà a puntare a un’inflazione stabile del 2%.
I conservatori hanno portato la pressione fiscale al livello massimo da 70 anni. Noi faremo in modo che le tasse per i lavoratori siano mantenute il più basse possibile. I laburisti non aumenteranno le tasse sui lavoratori, per questo non aumenteranno la National Insurance, le aliquote di base, superiori o aggiuntive dell’imposta sul reddito, né l’IVA.
Il Labour si confronterà con l’iniquità di questo sistema fiscale. Metteremo fine all’uso di conti offshore per evitare l’imposta di successione, in modo che tutti coloro che risiedono nel Regno Unito paghino le tasse qui. Il private equity è l’unico settore in cui le retribuzioni legate ai risultati sono trattate come plusvalenze. I laburisti chiuderanno questa scappatoia.
Modernizzeremo l’HMRC (equivalente all’Agenzia delle Entrate) e cambieremo la legge per contrastare l’elusione fiscale. Tutto ciò, insieme a una rinnovata attenzione verso l’elusione fiscale da parte delle grandi imprese e dei ricchi, inizierà a colmare il divario fiscale e a garantire che tutti paghino la loro giusta quota.*
(*) Testo tratto dal Manifesto del New Labour.
LE POLITICHE PER IL LAVORO
Il mondo instabile in cui viviamo ci pone dinnanzi ad interrogativi di carattere sociale e psicologico che attengono alle diverse sfere della sicurezza, nazionale, economica, energetica e del lavoro, interrogativi che devono portarci ad aggiornare il concetto stesso di sicurezza. La sicurezza sul lavoro, ad esempio, non vuol dire protezione statica, piuttosto revisione di quei meccanismi di supporto ai lavoratori, e non necessariamente al posto di lavoro, che consentono di gestire le crescite e le cadute delle imprese in un mondo in continua evoluzione.
Come nelle precedenti crisi, occorre legare la dinamica locale e quella globale. Su questo il Labour inglese ha sviluppato un’agenda di iniziativa politica denominata “securonomics”, che si preoccupa di definire come un partito social democratico può promuovere maggiore sicurezza per le persone nell’epoca dell’incertezza economica e politica. Ci sono varie esperienze internazionali a cui fare riferimento nell’ambito delle politiche di tutela dei lavoratori, dalla SPD ai democratici Biden. La sicurezza è da intendersi in primo luogo come la necessità di adattare l’impresa e il lavoro al mondo che si polarizza e diventa policentrico.
Un secondo aspetto è la necessità di sviluppare politiche e relazioni industriali che accettino il cambiamento ma promuovano politiche efficaci a gestire la transizione ecologica e digitale, con risposte adatte al rilancio economico che tengano assieme flessibilità e tutela, e con modelli di contrattazione flessibile e secondaria. La “securonomics” promossa dal Labour inglese consente di rafforzare gli strumenti di contrattazione in mano ai sindacati, di rafforzare la capacità di sviluppare infrastrutture fisiche e sociali strategiche e di promuovere l’occupazione in aree ad alto valore aggiunto.
Il filosofo Bernard Williams scriveva che la più importante delle questioni politiche è la responsabilità che chi aspira a governare deve mostrare dicendo come intenda assicurare ai cittadini e agli elettori stabilità in un mondo turbolento. La sicurezza non è quindi da intendersi come la conservazione dello status quo ma dipende dalla capacità di garantire le aspirazioni individuali, la giustizia sociale e la libertà e di perseguire l’innovazione. Non è quindi fine a sé stessa ma è “la speranza ordinaria della fondazione di una buona vita”, è togliere il freno a ciò che può consentire un cambio della prospettiva di vita e una crescita, personale e delle future generazioni.
Ci sono due grandi questioni, una interna e una globale. Quella globale riguarda la nuova guerra fredda che sta suddividendo il mondo in due poli contrapposti, guerra che ripropone la necessità di una revisione della produzione di beni, energie, risorse tra partner strategici ed alleati e che riporta ad una politica di reshoring industriale. Quella interna riguarda la transizione verde e digitale, e si connette con questa necessità di autonomia produttiva, rendendo necessario far emergere prospettive, principi e idee capaci di influenzare una nuova geopolitica della produzione industriale.
Quindi in primo luogo occorre orientare o ri-orientare le competenze necessarie per un riavvicinamento delle filiere. In secondo luogo, occorre studiare quei casi in cui si è fatta una gestione delle transizioni con politiche di flessibilità e sicurezza verso i lavoratori, prendendo esempio dal Job Security Councils svedese e il German Regional Transformation Agencies tedesco.
In terzo luogo, le politiche di salario minimo devono collegarsi a contrattazione decentrata, con la possibilità di derogare norme e regolamenti per specifici territori e settori, in quella che Rachel Reeves ha definito “economia quotidiana”.
La strategia “socialdemocratica”
È indubbio che l’esperienza pandemica ha determinato la necessità di uno Stato più presente per combattere la stagnazione e l’inflazione nei Paesi europei; la riscoperta del ruolo statale nello sviluppo ricorda da vicino le sperimentazioni adottate nella guerra fredda. Occorre quindi una connessione più stretta tra le sfide del movimento sindacale e quelle di un partito socialdemocratico perché il lavoro diventi lo strumento di acquisizione di quella sicurezza necessaria per far fronte ai cigni neri e ai cambiamenti epocali che stiamo vivendo.
Per raggiungere questo risultato occorre promuovere una contrattazione tra lavoro e capitale che supporti strategie di crescita dei salari e distribuisca il guadagno che deriva da un aumento della produttività formulando migliori termini e condizioni del lavoro. Questa contrattazione deve essere favorita dal basso e non imposta: lo Stato dovrebbe occuparsi di consentire relazioni industriali serene e una strategia industriale solida, lasciando poi ad imprese e capitale il compito di trovare i giusti accordi, territorio per territorio, settore per settore.
Troppo spesso i partiti progressisti hanno offerto un messaggio sul lavoro quasi “missionario”, di tutela, rispetto ad un futuro sempre più oscuro. L’esperienza del lavoro è lontana dall’essere un momento di dominazione e oppressione, è piuttosto una risorsa e un motivo di orgoglio, l’acquisizione di status e di crescita che si basa sulle aspirazioni. La destra ha offerto una visione di protezione che ha avuto impatto e raccolto consenso specialmente sui lavoratori meno specializzati, spaventati dai rapidi cambi dell’economia “digitalizzata”. La pandemia ha ulteriormente sottolineato e polarizzato le iniquità, sociali, politiche ed economiche, tra i più fragili quasi sempre sottopagati o precari e con poche opportunità di crescita.
Queste criticità acuiscono fratture e differenze di genere, geografiche e generazionali. Aumenta e si aggrava la distanza tra le piccole città de-industrializzate che perdono il loro ruolo di centri di produzione manifatturiera e le grandi metropoli arricchite da popolazioni più giovani, formate ed eticamente sensibili. Questa spaccatura è l’acqua in cui nuota il pesce del populismo, che ha portato alla Brexit e ad una dispersione del voto progressista.
Come mai la destra è stata più capace di interloquire con queste paure, con questo sentimento di esclusione? I partiti progressisti hanno trattato le trasformazioni del lavoro come imminenti e inevitabili. L’inevitabilità della trasformazione tecnologica (e delle scelte ambientalmente consapevoli) ha prodotto ansia e resistenza al cambiamento, indebolendo il lavoro esistente e la professionalità e, nel particolare, diminuendo la relazione tra un luogo e la sua specificità produttiva.
Occorre quindi reagire rimettendo al centro il rispetto e l’orgoglio che le competenze portano agli individui e alle comunità, e sostenere e riconoscere il senso di appartenenza al proprio territorio come al lavoro che si svolge. Inoltre, occorre distaccarsi dalla “terza via” blariana, che poteva avere un senso in una fase economica espansiva perché rispondeva alla santa alla crescita individuale e ad ogni singolo interesse particolare. Occorre invece rispondere alle destre e al populismo attraverso politiche che costruiscano compromessi e alleanze a cavallo delle fratture economiche e culturali che caratterizzano quest’epoca. In buona sostanza occorre una nuova agenda per ricostruire un contratto politico, culturale e sociale in un mondo polarizzato, condividendo esperienze di lavoro tra geografie, classi sociali e generazioni diverse.
Sicurezza: lo Stato e la strategia industriale
I partiti social democratici devono rivedere il loro rapporto con il concetto di sicurezza tenendo di che il concetto debba comprendere l’economia, la difesa, il commercio, la politica estera per sostenere l’interesse nazionale in un’era di conflitto globale e la politica della produzione nazionale in un contesto di gestione delle crisi del capitalismo in cui lo Stato riveste un ruolo essenziale.
Le scelte che lo Stato svolge per garantire il rafforzamento delle catene di fornitura, per rafforzare le infrastrutture critiche e per proteggere le industrie strategiche sono alla base della sicurezza nazionale, perché riducono la dipendenza dai Paesi esteri.
Un più ampio concetto di sicurezza, in aree come l’informatica, l’energia e la finanza, correla più strettamente che in passato la sicurezza nazionale e la sicurezza economica.
In questo l’esperienza innovativa di Biden può essere una grande ispirazione per i partiti progressisti. Biden non ha promesso un’“America first” come il suo predecessore isolazionista ma ha promosso la separazione delle forniture strategiche dalla Cina, rispondendo contestualmente alle necessità dei lavoratori americani. L’approccio produttivista o supply-side della sua politica economica emerge con l’Inflation Reducition Act, un poderoso intervento per ri-orientare le politiche commerciali, tecnologiche e di politica estera nel contesto della competizione con la Cina.
La ratio di fondo non è solo economica ma geopolitica, e come ha sostenuto Jake Sullivan, suo consigliere politico, porta ad un rapporto nuovo e più efficace degli USA con i suoi alleati, perché il commercio diventa uno strumento di politica che ricostruisce un’alleanza liberale tra gli Stati.
Una politica questa che ha successo, perché collega il globale con il locale, e porta tangibili benefici a lavoratori e comunità, creando nuovi lavori e nuove attività. Ciò comporta però una grande attenzione alla politica industriale che ha ancora più senso per i Paesi (come l’Italia) fortemente concentrati nello sviluppo “guidato” dall’export.
È evidente che ciò che stiamo affrontando come “interesse nazionale”, o come ruolo dello Stato, si manifesta ancor più chiaramente se lo colleghiamo al ruolo dell’Europa, soprattutto in relazione alle sfide che l’amministrazione Biden affronta. Nella nuova guerra fredda con Cina e Russia un’Europa non frammentata può giocare un ruolo importante, prendendo vantaggi strategici in specifici settori, ma solo se al suo interno non inizia una concorrenza tra i Paesi membri. Questo ci porta all’eterno dilemma su quanta risposta politica debba essere data a livello europeo e quanta a livello nazionale.
Attualmente, purtroppo, le politiche adottate sono squisitamente di carattere nazionale e la politica di sviluppo industriale europea è scarna. Ma in alcuni casi, come la produzione di batterie e la sostituzione della Russia come fornitore energetico l’Europa è stata chiamata, con successo, ad una risposta unitaria. Il rischio è che di fronte a movimenti epocali come la competizione tra USA e Cina, la risposta nazionale, anche di Stati importanti come quello tedesco, sia limitata, e si traduca in una distribuzione di risorse senza una strategia industriale e produttiva. Non c’è un piano per affrancarsi dalla dipendenza dalle big tech degli USA, nulla che sviluppi i campioni europei della tecnologia o provvedimenti che promuovano le opportunità dell’intelligenza artificiale.
Inoltre la tipica austerità di Bruxelles porta a rendere difficile replicare l’enorme investimento pubblico promosso negli USA. La politica industriale della UE non sembra darsi il compito di puntare e rafforzare i possibili campioni europei, ma per rafforzare l’intero sistema distribuisce la capacità industriale tra gli Stati membri. Una scelta che incentiva l’innovazione a livello di singolo Stato invece che una politica “integrata”. Le difficoltà nel dare risposte di sistema europee restano proprio in una fase in cui occorre ripensare al ruolo pubblico di stimolo dell’economia, non attraverso il ritorno ad una logica degli aiuti diretti di Stato, ma costruendo questo nuovo ruolo di stimolo. In pratica si avverte la necessità di guidare i processi di accorciamento delle filiere, di controllo degli acquisti esteri e di stimolo alla produzione interna di energia e di avere maggiore indipendenza nel promuovere lo sviluppo delle nuove tecnologie. L’importanza dello Stato (anche nella sua accezione europea) e del suo intervento diventa fondamentale per sviluppare gli investimenti e proteggere gli interessi nazionali.
Le popolazioni europee sono afflitte da una crescente sensazione di insicurezza, che riguarda il costo della crescita dei figli, dell’abitare, della cura della persona e della previdenza. In sintesi, la preoccupazione deriva dal costo della vita, che aumenta sempre di più per le crisi globali e le trasformazioni in atto, e che rischia, se non affrontato seriamente, anche di mettere in discussione l’appartenenza atlantica degli Stati europei.
Per affrontarlo occorre riportare il lavoro e l’industria nei nostri territori, stimolando la vocazione manifatturiera che ci contraddistingue. Il periodo della globalizzazione ha consentito a molti Paesi occidentali di sfruttare una libera circolazione dei beni sulla base del fatto che l’industria nazionale non era più determinante in termini di vantaggio strategico. La pandemia e la nuova guerra fredda ci stanno riportando alla necessità di una produzione nazionale di alcuni beni, come l’energia, la tecnologia verde e la difesa.
Ciò comporta un nuovo dilemma, da un lato la necessità di apertura dei mercati e il libero scambio e dall’altro la necessità di un maggior protezionismo per tutelare i lavori, il rinnovamento industriale e la crescita economica. Certamente le politiche di delocalizzazione hanno lasciato i Paesi occidentali più dipendenti da sistemi economici rivali: i bassi costi del lavoro hanno sostenuto una corsa verso il basso dei salari e abbattuto la produttività interna. Per questo ha senso immaginare una taskforce che sostenga il riavvicinamento delle filiere e la creazione di infrastrutture produttive, che incentivi le imprese a riavvicinare i propri fornitori ed a promuovere una produzione sicura e la fornitura di beni con un aumento della qualità, della tecnologia e dei salari.
È evidente che non basta il reinserimento dell’attuale produzione estera nel tessuto europeo e nazionale. Serve sfruttare l’opportunità della transizione ecologica per alzare la qualità del lavoro, offrire ai lavoratori una formazione continua per affrontare le crisi economiche e industriali e aprire spazi di libero commercio tra Paesi alleati (obiettivo mancato con il fallimento dei negoziati per il Transatlantic Trade and Investment Partnership).
Di fatto lo Stato non deve avere il compito di ricostruire una “grandeur” produttiva basata sulle industrie del passato, ma deve rivitalizzare le strutture istituzionali che consentono allo Stato di adattarsi ai periodi di trasformazione e incertezza, senza ritirarsi dalle catene di valore globali ma offrendo protezione ai propri lavoratori. Insieme con l’impresa occorre quindi che lo Stato investa in competenze, formazione e nuove tecnologie, che non sia un antagonista dell’industria, ma che abbia una prospettiva di lungo termine, la stessa che l’impresa non sempre può avere. E offrendo quindi misure di sostegno per una maggiore produttività e una maggiore crescita. Il “ritorno dello Stato” per coordinare e intervenire nell’economie e nella società ha luogo nella definizione delle relazioni industriali (una parte cruciale della strategia industriale) e mette i lavoratori e il lavoro al centro di un nuovo ordine economico basato su tre aspetti: nuove competenze, nuova produttività e nuova industria.
La politica del lavoro, dalla distribuzione alla produzione
Nel cambiamento tecnologico non c’è nulla di inevitabile, perché la tecnologia è una variabile che impatta profondamente i contesti economici e i luoghi di lavoro. Occorre quindi evitare un approccio determinista alla tecnologia, e chiederci piuttosto come la tecnologia possa impattare e se può aiutarci a migliorare la nostra vita o meno. Il panico rispetto ai robot che rubano il lavoro degli umani va gestito partendo dal presupposto che chi governa ha il compito di gestire le sfide del progresso mettendo al centro l’essere umano.
Per questo serve una politica industriale moderna basata su principi di partnership sociale per coordinare interessi e poteri differenti o per negoziare tra questi stessi interessi. Questi principi si possono concretizzare nella creazione di nuove istituzioni che uniscano le richieste dei lavoratori all’esigenza di una programmazione di governo dell’economia di lungo termine. Un esempio è la Commissione Produttività australiana, che comprende un consiglio strategico e industriale che composto da sindacati, rappresentanti dell’impresa e esperti accademici, con poteri di valutare la legislazione e il suo contributo alla crescita e alla produttività, o di valutare la spesa fatta per sostenere la ricerca e lo sviluppo, o ancora la finanza per l’innovazione, garantendo la protezione delle infrastrutture strategiche e delle catene produttive. Nella Commissione Australiana ci sono inoltre il Council of Skills Advisors, che ha il comporto di equipaggiare lavoratori e industria delle competenze utili per affrontare le sfide industrial, e il National Economic Council, che ha il compito di fissare la direzione di una pianificazione economica politica di lungo termine.
Questo esempio indica l’istituzionalizzazione di nuove forme di partnership e dialogo sociale che ricordano da vicino politiche di concertazione e che rafforzano le abilità e le scelte strategiche industriali come elemento di protezione della nazione e del lavoro. Non va sottovalutato che queste istituzioni possono diffondere un clima di fiducia e di “confidenza” verso la crescita, che a sua volta può incidere nella capacità di ampliare la base produttiva e industriale di un Paese e incidere nell’economia quotidiana che ogni famiglia affronta.
Lo Stato ha quindi il ruolo di promuovere una politica industriale di lungo respiro, che passa dalla “devoluzione” di poteri verso i territori e verso i lavoratori. Gli enti locali che assumono quindi un ruolo strategico importante, sono oggi messi davanti alla difficoltà di far quadrare il proprio bilancio più che a quella di giocarsi un ruolo strategico e di sviluppo. Inoltre la devoluzione dei poteri verso i lavoratori si scontra con la difficoltà dei meccanismi tradizionali (come la contrattazione collettiva) di essere efficaci nella mediazione degli interessi fra le parti.
Da ciò emerge la necessità di rafforzare la voce dei lavoratori e delle comunità in un modo moderno e efficace per compattare la società di fronte alle sue nuove sfide. Lo Stato maggiormente interventista può assicurare le industrie strategiche e proteggere le abilità dei lavoratori, supportare le imprese nello sforzo di riavvicinare le catene di valore e di salvaguardare le infrastrutture strategiche, in modo da creare un clima di maggiore fiducia e confidenza verso l’impresa e il lavoro.
Per raggiungere questi obiettivi occorre che i sussidi e gli aiuti di stato siano condizionati a determinati obiettivi in termini di salari e formazione. I meccanismi di credito fiscale che sostengono il sistema devono incentivare il lavoro nei settori all’avanguardia e sostenere la transizione ecologica e digitale. Occorre sostenere standard di lavoro, a partire dalla definizione di salari e compensi minimi, in particolare negli appalti pubblici, sostenendo le imprese che sostengono il lavoro, che compiono scelte ambientalmente e socialmente sostenibili e che possono quindi giocare un ruolo nello sviluppo dell’economia interna, usando materiali e fornitori nazionali e sviluppando la forza lavoro interna.
Occorre inoltre riformare la “corporate governance” incoraggiando le scelte di lungo termine e la partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali. A tendere occorre favorire la presenza di lavoratori e rappresentanti territoriali insieme con la presenza degli azionisti nei consigli di amministrazione, con meccanismi statutari per la compartecipazione nelle scelte strategiche delle imprese.
A ciò occorre aggiungere la necessità di una Low Pay Commission per definire il salario minimo sulla base dei costi della vita che territorialmente si presentano. Su questo l’esempio UK indica come sui salari più bassi si sia intervenuti recentemente (a differenza del caso italiano) mentre poco si sia fatto sui salari medi colpiti dall’inflazione. Lo Stato dovrebbe quindi intervenire anche su di essi, favorendo una contrattazione collettiva mirata ad aumento della produttività, attraverso la formazione e l’aumento degli stipendi medi. Ad oggi non c’è la percezione che la crescita di produttività possa far aumentare gli stipendi a causa di una debolezza dei sindacati e della contrattazione. Occorre invertire questa tendenza non tramite politiche di redistribuzione fiscale (che spaventano l’elettorato che ha un reddito medio e che si sono rilevate inefficaci nelle fasi di stagnazione economica) ma puntando su un innalzamento degli stipendi, della produttività e delle competenze, misure che ricadono sotto il concetto di “predistribuzione”. In altre parole occorre intervenire nelle regole di sistema che promuovono una economia inclusiva invece che concentrarsi sulla necessità di redistribuire la ricchezza creata. Quindi occorre dare ai lavoratori il potere nei proprio luoghi di lavoro e serve che gli investimenti offrano da subito incentivi alla produttività e allo sviluppo di maggiori competenze.
La “predistribuzione” del benessere significa rivedere l’impresa dalle fondamenta, sostenendo la crescita dei salari specialmente in quei settori dove i sindacati sono maggiormente assenti, promuovendo incentivi ad investimenti in tecniche di crescita della produttività e delle tecnologie a determinate condizioni di tutela del lavoro. Certo tutto ciò non è affatto semplice e indolore per le limitate leve che chi governa può azionare. La leva legislativa è complicata perché molto passa da una gestione diretta del rapporto con capitale e lavoro. La presenza dei sindacati inoltre è limitata, e spesso non intercetta nelle sue richieste il bisogno strategico nazionale. Un’economia basata su un basso costo del lavoro (o su imprese molto piccole) rende complicato promuovere un modello di sviluppo diverso. Milioni di lavoratori non sono coperti da garanzie e sono sprovvisti di una tutela sindacale, spesso ricevono risposte corporative, e non sono di fatto coinvolte da prospettive di sviluppo integrato.
Occorre quindi uno sforzo di immaginazione nel promuovere nuove istituzioni che indichino la strada del compromesso e della rappresentanza tra gli interessi in gioco e diano rappresentanza a chi non ne ha.
Conclusione
Lo sviluppo tecnologico non è un fattore immodificabile e inevitabile. Occorre abbandonare ogni spirito deterministico e trattare l’innovazione come un fenomeno da gestire, mettendo al centro le persone e i lavoratori. I fattori geopolitici, e in generale la politica, sono vitali per ridisegnare la mappa del lavoro e della competitività e il posizionamento delle catene di produzione in un sistema che è sempre più bipolare.
La difficoltà nel procedere con le riforme legislative, la bassa rappresentanza dei sindacati, la diffidenza verso l’industria e i suoi bisogni rendono difficile cambiare dall’alto il mondo del lavoro. Il settore della difesa diventa cruciare per il suo ruolo di protezione internazionale e innovazione. In egual modo, la transizione ecologica consente di ampliare competenze e produttività purché nella transizione il ruolo del lavoro e dei lavoratori sia al centro dei processi, tramite partnership sociali e attraverso la creazione di nuove istituzioni in grado di mediare gli interessi in gioco.
È tempo quindi di uno Stato più “interventista”, che si occupi del rafforzamento del dialogo tra le diverse parti della società e crei e le condizioni per una “partnership sociale” tra sindacati, imprese e governo per garantire più potere (economico e decisionale) ai lavoratori nei luoghi di lavoro e nella società. Ciò che è emerso durante la pandemia prima e dopo l’illegale invasione della Russia ha ulteriormente messo in evidenza la nascita di una nuova guerra fredda tra le democrazie liberali e l’autoritarismo. Questo processo riconfigurerà sempre più le catene di fornitura e renderà necessaria una reindustrializzazione dei Paesi occidentali, con la conseguente modernizza-zione istituzionale e la necessità di rivedere la formazione delle competenze se i lavoratori. In buona sostanza, serve una nuova politica industriale condivisa con imprese e sindacati.
Siamo in un’epoca di conflitto tecnologico e guerra economica: gli interessi nazionali passano da una protezione dello Stato e dal rafforzamento del ruolo dei lavoratori e della loro sicurezza sociale. Come durante la guerra fredda, la politica sviluppò forme di contrattazione che rafforzarono il ruolo dei lavoratori (che poi diminuì proprio con lo scemare delle tensioni internazionali), così oggi è sempre più necessario riprendere in modo innovativo, modalità di rafforzamento del potere dei lavoratori garantendo spazi di contrattazione e rappresentando la voce di chi ne ha meno.
Non è sufficiente, infine, promuovere sicurezza come un obiettivo fine a se stesso, ma occorre estendere i diritti e la libertà, il potere e l’autonomia dei lavoratori e delle comunità locali, soggetti capaci di poter contrattare e negoziare i termini di sviluppo della vocazione industriale e produttiva. Lo Stato interventista che si immagina non è quindi uno sviluppatore di processi dall’alto, ma un intermediario tra interessi costituiti, che decentralizza la contrattazione e dà più forza e stabilità ai processi democratici, che punta all’aumento della produttività come strumento condiviso tra capitale e lavoro per aumentare la sicurezza e il dinamismo economico.
Il rafforzamento delle architetture delle relazioni industriali rafforzano la sicurezza di una ampia maggioranza di popolazione e sono la modalità con cui riconnettere le forze social democratiche con i cittadini e le persone, scacciando e allontanando il pericolo populista in un contesto globale di insicurezza.
Estratti del FEPS Policy Study di Andrew Pakes e Frederick Harry Pitts: “A Progressive Politics of Work for the Age of Unpeace – What Labour can learn from the European centre-left” in collaborazione con Progressive Britain, settembre 2023. La versione originale e completa del paper si trova qui: https://feps-europe.eu/wp-content/uploads/2023/09/A-progressive-politics-of-work-for-the-age-of-unpeace.pdf.